Gaza, le piazze e il nostro sguardo

10 Ottobre 2025

Valeria Verdolini Presidente Antigone Lombardia

Le mobilitazioni di questi giorni sono state grandi e incredibili, ma non bastano: serve ora costruire spazi di trasformazione politica, immaginando una pace meno coloniale di quella proposta da Trump, e una messa in sicurezza delle vite in primis, e dei diritti poi.

Chiunque della mia generazione abbia partecipato a una delle moltissime piazze che si sono riempite dal 22 settembre in poi, o forse ancor prima, da Genova e Catania il 30 agosto, non può che essersi emozionato e avere invidiato quelle ragazze e quei ragazzi che sono scesi in piazza per la prima volta in queste occasioni. Sono giovani che hanno scoperto in questi mesi cosa significa la lotta per i diritti, e che i diritti violati riguardano sempre tutte e tutti. Perché le piazze di questi ultimi giorni sono state incredibili, fatte di famiglie bambini, cani, biciclette, fischietti, anziani.

Durante lo sciopero generale del 3 ottobre, hanno aderito anche i detenuti lavoranti del carcere della Dozza di Bologna. Quel giorno di lavoro, quel compenso perso, in uno spazio non libero, è davvero un gesto enorme. Con molte, soprattutto amiche, ci siamo interrogate sul perché solo ora, e anche cosa ne sarà di questa forza, che ha una spontaneità che ne fa la la ricchezza ma rischia di esserne anche il limite, così come una certa radicalitá che dovrebbe trovare i canali per diventare politica. Io credo che il cambiamento del sentire non sia avvenuto ora, ma a tarda primavera, quando ciò che accadeva sulla sponda est del Mediterraneo è diventato così intollerabile da non poter più essere taciuto, anche dai media tradizionali, da abitare le scuole, le domande dei bambini che parlano del cattivo “ntagnau” ma che si interrogano, sin da piccoli, su cosa significhi abitare nel posto sicuro del mondo. Credo anche che quel passaggio abbia reso l’urgenza della protesta e della solidarietà una questione di tutte e di tutti, e non più solo dei palestinesi (con tutta la problematicità di questo passaggio). Posso immaginare la fatica per chi ha protestato ogni sabato, e la solitudine di quelle giornate e piazze, ma penso che ora sia importante usare quella forza per immaginare spazi di trasformazione politica, immaginando una pace meno coloniale di quella proposta da Trump, e una messa in sicurezza delle vite in primis, e dei diritti poi.

Come ha scritto Omar El Akkad, nell’ormai noto saggio “Un giorno tutti diranno di essere stati contro”: «No, non c’è qualcosa di terribile in arrivo nel lontano futuro, ma sappi che qualcosa di terribile ti sta succedendo adesso. Ti viene chiesto di soffocare una parte di te che altrimenti urlerebbe di fronte all’ingiustizia. Ti viene chiesto di smantellare i meccanismi di una coscienza critica. Che importa se la convenienza diplomatica preferisce che tu distolga lo sguardo di fronte alle immagini di bambini smembrati? Che importa se l’enorme distanza da quel luogo impregnato di sangue permette di dimenticare? Lascia perdere la pietà, persino i morti, se proprio devi, ma almeno lotta contro il furto della tua anima».

E sebbene io sappia che non basta, che non è sufficiente, e che finiamo sempre per parlare di noi, intesi come noi occidentali, noi bianchi, noi europei, che, come ha detto in maniera cristallina Greta Thunberg «Non siamo noi la storia, non distogliamo lo sguardo da Gaza», per questi ultimi giorni quel “noi” è stato qualcosa di stretto, caldo, vicino e disposto a lottare, non per sé ma per gli altri. Non siamo fuori campo. Siamo dentro l’inquadratura e decidiamo cosa includere e cosa tagliare, se guardiamo al nostro spazio locale. Se stringiamo sulla Flotilla, Gaza scivola sullo sfondo, e ci sembra di occuparci solo degli attivisti, di perdere la ragione del loro rischiare; se stringiamo su Gaza, spariscono i porti, i camalli e il sindaco di Ravenna che blocca le armi, le piazze europee piene, i tentativi (tardivi) ma in incremento del riconoscimento dello stato della Palestina, le complicità istituzionali. Se invece ci spostiamo, e vediamo il nostro starne ai margini – in termini materiali, di non essere toccati direttamente dalla materialità della violenza – emerge la consapevolezza che molte guerre si combattono in nostro nome; sta a noi misurare il poco o il molto che possiamo fare.

Come ha affermato Judith Butler ne “L’alleanza dei corpi”, «le domande etiche che emergono oggi nei circuiti globali dipendono da questa limitata, ma necessaria, reversibilità dei concetti di prossimità e di distanza. D’altronde, alcuni legami sono già prodotti da questa reversibilità, nonché dall’impasse che la costituisce. E si tratta di una reversibilità che si scontra con la questione della presenza corporea, dal momento che, per quanto possiamo essere pienamente trasportati altrove dai media, di fatto, non lo siamo». Ma vale anche il contrario: l’alleanza tra i corpi non può che svolgersi in un’immanenza.

Se, come abbiamo visto, siamo mossi da un’obbligazione etica, che qui ed ora ci impone di non restare indifferenti, allora non potendo portare noi stessi in un altrove, non potendo essere corpi di pace, possiamo solo riempire con l’alleanza dei corpi le strade, le piazze, le vie, le stazioni, per portare quell’altrove qui, attraverso quei muscoli, quelle ossa, quei respiri e quegli sguardi che in questo spazio possono restituire alleanza, e provare a sconfiggerli, insieme.

Valeria Verdolini insegna Sociologia del diritto, ed è Presidente di Antigone Lombardia.
L’ultimo libro è “L’istituzione reietta. Spazi e dinamiche del carcere in Italia”, Carocci, 2022.

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