Se l’obiettivo del governo israeliano fosse stato soltanto sconfiggere ed eradicare Hamas per rendere definitivamente sicura la Striscia, prima o poi avrebbe dovuto necessariamente pronunciarsi su ciò che intendeva fare nel “dopoguerra”, a partire da chi riteneva dovesse garantire la ricostruzione e l’amministrazione civile di quel che sarebbe restato di Gaza. Si era invece limitato ad annunciare che avrebbe mantenuto il controllo militare dell’intera area e che le operazioni dell’esercito si sarebbero concluse solo dopo aver completamente “ripulito” e “deradicalizzato” – qualsiasi cosa significasse – l’intero territorio.
Avrebbe dovuto prefigurare un progetto politico complessivo, una volta “pacificata” la Striscia, che mirasse a depotenziare la “questione palestinese”; una visione del futuro che rassicurasse la comunità internazionale, e possibilmente quella arabo israeliana, (più difficilmente quella dei territori) sulla volontà di realizzare forme di convivenza fra i due popoli che risiedono in quell’area geografica, non fondate esclusivamente sull’asservimento, la ghettizzazione e l’apartheid, senza le quali non ci potrà essere alcuna pace duratura, come dimostrano i settantasette anni di vita dello Stato ebraico.
Con il trascorrere del tempo, è diventato sempre più chiaro che per l’attuale governo israeliano la distruzione di Gaza sembra essere una semplice tappa di un disegno “strategico” più ampio che mira ad espellere progressivamente l’intera popolazione palestinese, più di cinque milioni di persone, da tutti i territori occupati, per ricostruire almeno parzialmente la “Terra di Israele”, l’Eretz Yisrael, che secondo il Tanakh e la Bibbia cristiana sarebbe stata promessa da Dio agli ebrei. Il problema, che potrebbe anche essere considerato un’opportunità, è che della Terra Promessa esistono diverse mappe con differenti confini e dimensioni, se non altro perché frutto delle infinite trascrizioni, traduzioni, riscritture della “Parola di Dio” dei diversi agiografi che hanno dato forma scritta al testo, tutti necessariamente posteriori agli eventi narrati, che la critica biblica moderna situa non prima del X secolo per alcuni Salmi e dal VI fino al IV secolo a.C. per la Tōrāh scritta. La versione geografica più ampia è sicuramente quella promessa ad Abramo nella Genesi 15:18-21 “Io do alla tua discendenza questa terra, dal fiume d’Egitto fino al grande fiume, il fiume Eufrate”, la Grande Israele (Hashlemà Yisra’él), ma ci sono anche quelle più ridotte, descritte in Numeri 34:1-15, la terra promessa da Yahweh a Mosè in punto di morte dopo l’Esodo degli ebrei dall’Egitto, chiamata “Erétz Kna’an, Terra di Canaan, oppure quelladove vivranno le dodici tribù di Israele alla fine dei tempi, annunciata nel Libro dei Profeti in Ezechiele 47:13-20, durante l’esilio in Babilonia. Ambedue includono sia Gaza che la Cisgiordania, l’ex West Bank britannica che gli israeliani chiamano Giudea e Samaria, oltre a parte del Libano attuale e della Siria meridionale, fra cui le alture del Golan.
Adesso che Gaza è stata trasformata in un deserto e i suoi abitanti stanno per essere concentrati in meno del 10% del territorio – l’area più sovraffollata del pianeta, una sorta di minuscola zona di transito sorvegliata militarmente da cui non potranno più uscire, in attesa che se ne vadano “volontariamente”, sempre ammesso che trovino qualcuno disposto ad accoglierli – dal punto di vista israeliano non esisterebbe più alcun problema del dopoguerra.
Per respingere le accuse di pulizia etnica e di espulsione forzata della popolazione, il premier israeliano ha affermato di voler “offrire un’opportunità” a chi desidera partire, se necessario con incentivi in denaro mirati a favorire il reinsediamento in altri Paesi, come previsto nel progetto elaborato, sia pure non ufficialmente, in un documento della Boston Consulting Group, una società americana di consulenza strategica manageriale globale fra le prime tre nel mondo, che fornisce consulenze al top managementdi grandi aziende, società, organizzazioni no profit e occasionalmente governi, con sedi in numerosi Paesi, fra cui l’Italia. (La società ha licenziato per “violazione del codice etico” i dipendenti che avevano lavorato “segretamente” al piano di emigrazione incentivata o “trasferimento volontario” propedeutico alla trasformazione della Striscia in una “riviera del Medio Oriente” e costretto alle dimissioni altri due dirigenti senior accusati della mancata supervisione del piano “Aurora”). Si tratterebbe, insomma, di “libertà di scelta individuale”, non di costrizione. Trasformata la Striscia in un grande resort turistico e commerciale, con annessi un centro direzionale tecnologico, logistico e persino una piccola e sofisticata zona industriale, qualsiasi eventuale futura soluzione del problema palestinese, contrariamente a quanto sostenuto dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale, non potrebbe più contemplare in alcun modo la creazione dei due Stati, né con le dimensioni previste originariamente dalla Risoluzione 181 del 29 novembre 1947, né con quelle della linea verde pre-1967, e neppure con quelle ipotizzate nel vertice fallito di Camp David del luglio 2000 (il 90% della Cisgiordania e la Striscia di Gaza), con buona pace del diritto umanitario e delle convenzioni internazionali, per non parlare degli appelli e delle risoluzioni delle Nazioni Unite, sistematicamente ignorate, come quelle che le avevano precedute.
Questa volta però ci si è spinti più in là:
– le crescenti pressioni internazionali;
– l’apertura, nel dicembre 2023, di un procedimento contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia (Cig) dell’Aia – il tribunale delle Nazioni Unite che ha giurisdizione sugli Stati – su denuncia del Sudafrica per violazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 9 dicembre 1948, vincolante per ambedue le nazioni come per tutte le altre 150 che l’hanno sottoscritta, seguita dall’ordine a Israele di adottare una serie di misure cautelari, puntualmente disattese, al fine di “garantire la fornitura senza ostacoli su larga scala di servizi di base urgentemente necessari e assistenza umanitaria”;
– la richiesta, nel maggio 2024, da parte del Procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi);
– un tribunale istituito nel 1998 per perseguire i singoli individui che commettono crimini iuris gentium che riguardano l’intera comunità internazionale, collegato ma non organo diretto delle Nazioni Unite, (forse perché 32 Paesi, fra cui Usa, Cina, Russia e Israele, pur avendo firmato il trattato per la sua costituzione non l’hanno poi mai ratificato) – di processare i massimi leader di Hamas, il capo dell’ufficio politico in Qatar, quello di Gaza e quello militare, ambedue uccisi nel frattempo dal Mossad e dall’IDF, e il Primo ministro e il ministro della Difesa israeliani (quest’ultimo licenziato e sostituito nel frattempo dal premier), per i quali nel mese di novembre 2024 sono stati emessi mandati di arresto eseguibili in tutti i 124 Paesi che hanno ratificato il trattato istitutivo della Corte;
– due risoluzioni che chiedevano il cessate il fuoco, il rilascio degli ostaggi e l’ingresso urgente degli aiuti umanitari nella Striscia, la prima limitata al mese di Ramadan, iniziato l’11 marzo 2024, e la seconda che delineava un cessate il fuoco in tre fasi, ciascuna con impegni definiti che avrebbero dovuto condurre alla fine della guerra, presentata direttamente dall’ex Presidente degli Stati Uniti Joe Biden il 10 giugno 2024, approvate all’unanimità con una sola astensione dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU;
– il voto senza precedenti di 143 Paesi membri a favore della risoluzione del 10 maggio 2024, che ritiene la Palestina “qualificata per diventare a pieno titolo membro delle Nazioni Unite” (dal 2012 la Palestina è uno “Stato osservatore permanente” all’ONU, il che le consente di partecipare alla vita e a quasi tutti i procedimenti dell’Organizzazione, ma senza il diritto di voto sulle risoluzioni e sulle decisioni dei suoi organismi, dal Consiglio di Sicurezza ai Comitati principali) nonostante il veto posto dagli Stati Uniti nel Consiglio di sicurezza;
– la pubblicazione del rapporto di 72 pagine della Commissione indipendente istituita nel 2021 dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e supervisionata da esperti appositamente nominati, che verrà presentato all’Assemblea Generale ad ottobre, la quale, dopo aver indagato ed esaminato prove e testimonianze relative al periodo dal 7 ottobre 2023 al 31 luglio 2025, è arrivata alla conclusione che lo Stato di Israele stia commettendo un genocidio contro i palestinesi di Gaza e sia responsabile dei primi quattro dei cinque atti commessi “con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”, elencati nell’articolo II della Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 9 dicembre 1948, a cui aderisce anche Israele. Questi atti sono: “uccisione di membri del gruppo”; “lesioni gravi all’integrità fisica e mentale di membri del gruppo”; “sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a procurare la distruzione fisica totale o parziale”; “misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo”;
Nessuna di queste azioni è riuscita a imporre la fine delle ostilità, o almeno a frenare la desertificazione di Gaza, né ad arrestare la frenetica avanzata della colonizzazione e dello smembramento in Cisgiordania (in questi ultimi ventitré mesi i coloni hanno confiscato più terre ai palestinesi che negli ultimi venti anni); al contrario, sembrano aver ottenuto l’effetto opposto.
Né lo strapotere militare israeliano, né il rifiuto dei ripetuti inviti fatti dalla comunità internazionale, dalle Corti, dagli organismi internazionali e dai singoli Stati all’immediata cessazione delle ostilità e al rispetto del diritto umanitario, sono tuttavia riusciti a impedire il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di diversi Paesi occidentali e l’adozione da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite della “Dichiarazione di New York sulla risoluzione pacifica della questione palestinese e l’attuazione della soluzione dei due Stati” – risoluzione presentata da Francia e Arabia Saudita non vincolante (l’effettivo riconoscimento viene effettuato in base alla libera sovranità dei singoli Stati) approvata da 142 Paesi, con soli 12 astenuti e 10 contrari, fra cui Usa e Israele, che promuove la nascita di uno Stato palestinese a condizione che “Hamas cessi di esercitare la propria autorità sulla Striscia di Gaza e consegni le armi all’Autorità nazionale palestinese con il sostegno e la collaborazione della comunità internazionale conformemente all’obiettivo di uno Stato di Palestina sovrano e indipendente”.
La risoluzione è particolarmente significativa perché precede la Conferenza sulla soluzione dei due Stati per la questione israelo-palestinese al Palazzo di vetro che si terrà dal 22 al 27 settembre, in cui diversi Paesi occidentali, tra cui Francia, Belgio, Lussemburgo, Regno Unito, Malta, Finlandia, Canada, Australia e Portogallo – ma non l’Italia – hanno annunciato che si uniranno ai 147 Paesi (sui 193 membri Onu) che già riconoscono lo Stato di Palestina, isolando ulteriormente Stati Uniti e Israele.
Il premier israeliano, che già aveva dichiarato in più occasioni che non esisterà mai uno Stato palestinese, e che ha prefigurato la possibile annessione di vaste parti della Cisgiordania occupata in risposta all’eventuale riconoscimento, ha tacciato la risoluzione di essere “una dichiarazione vergognosa che incoraggia Hamas”, mentre la sua ambasciatrice alle Nazioni Unite ha liquidato la questione affermando che si tratta di “una proposta vuota che ignora completamente la realtà”.
Quanto alle conclusioni dell’inchiesta internazionale indipendente dell’ONU sui Territori palestinesi occupati, sono state respinte come false, scandalose e frutto dell’antisemitismo dei membri della Commissione, a loro volta qualificati come “agenti di Hamas”.
Le stesse Nazioni Unite e le loro agenzie in loco erano del resto già state accusate di collusione con “i terroristi” e definite una “palude antisemita”, mentre al loro Segretario generale era stato addirittura impedito l’ingresso in Israele in quanto “persona non grata” e, cosa ancor più grave, era stata messa al bando la stessa Unrwa, a cui è stato rimosso lo status diplomatico, impedendole di operare in Israele e di avere contatti con gli enti israeliani, il che implica l’impossibilità per l’Agenzia che assiste i profughi e i rifugiati palestinesi a Gaza di sdoganare le merci e quindi di distribuire quel che poco che rimane dei servizi medici e delle forniture di cibo e acqua.
Anche la Corte penale internazionale è stata definita un “organismo politico parziale e discriminatorio”, colpevole di equiparare uno Stato democratico a dei terroristi, che muove accuse assurde e false motivate solo dal proprio antisemitismo, e che vorrebbe inscenare “un moderno processo Dreyfus”. Nessun anatema ha però potuto impedire le pur parziali limitazioni di movimento che devono osservare l’ex ministro della difesa israeliana Yoav Gallant e il Primo ministro Benjamin Netanyahu.
Il problema è l’aporia alla base del diritto internazionale e delle istituzioni sovranazionali, le quali si fondano sulla sottoscrizione di patti fra gli Stati che accettano di limitare parzialmente la propria sovranità sottomettendosi, in caso di violazione dei patti stipulati, al giudizio di corti internazionali, che sono però prive di mezzi coercitivi e devono quindi ricorrere, per far rispettare le proprie decisioni, a quelle degli Stati stessi.
Così il premier israeliano ha potuto tranquillamente recarsi in Ungheria, che per l’occasione è uscita dalla Corte Penale internazionale, e tre volte negli Stati uniti, che non hanno formalmente riconosciuto la CPI e che non sono uno Stato membro del suo Statuto.
Ma in un mondo iperconnesso e globalizzato, davanti al superamento di tutte le norme del diritto internazionale, all’utilizzo pubblico di un linguaggio d’odio che distingue sistematicamente fra vittime – alcune meritevoli di rispetto, lutto e inumazione dei corpi, altre disumanizzate e trasformate in massa numerica indistinta – e all’esibizione di una protervia fondata esclusivamente sulla nuda forza, nulla può arginare il discredito morale e l’isolamento in cui il protrarsi degli assassinii indiscriminati di civili, il dichiarato intento di spopolamento di Gaza, il disprezzo del pronunciamento delle Corti e la guerra senza quartiere mossa alle Nazioni Unite – un ulteriore paradosso, una sorta di matricidio, se si pensa che proprio l’ONU ha fornito la base giuridica per la creazione dello Stato di Israele – hanno precipitato lo Stato ebraico, sempre più sprofondato in una terra dove anziché il latte e miele biblici scorrono fiumi di sangue; una terra trasformata, da regno della fertilità e della dolcezza, nella culla di monoteismi feroci in cui anche le crociate sembrano destinate a durare in eterno.

