Mesi fa ho accettato la proposta di don Paolo di vivere un’esperienza di volontariato-pellegrinaggio in Terra Santa. Nel frattempo, la situazione andava peggiorando, soprattutto nella striscia di Gaza. È stato un percorso spirituale molto intenso sui luoghi sacri ma è stato, anche e in larga parte, un percorso di incontri umani e politici. Non è facile riuscire a tradurre in parole tutto quello che ho dentro ma so che serve perché urge raccontare quanto sta succedendo. Così ho deciso di scrivere: ecco allora, per chi ha voglia di leggere, i miei racconti e le mie impressioni.
La Terra Santa ci accoglie con un gran caldo che ci accompagnerà per tutto il tempo. Partendo da Nazareth arriveremo a Emmaus e, strada facendo, incontreremo tante persone, ciascuna vittima di una situazione che non ha voluto o scelto.

Lago di Tiberiade – Padre Miguel
Ci chiede di cambiare i suoi euro in moneta con euro di carta: ha pronti dei sacchettini da 5 e 10 euro. La moneta non serve più a niente, in banca cambiano solo il denaro di carta. 
È il primo veloce scambio sul momento attuale.
Ci dice: l’Occidente non riconosce il genocidio in corso a Gaza. Siamo al crollo dell’impero dell’Occidente. La domanda sorge spontanea? Può avere un senso riconoscere lo Stato di Palestina come stanno facendo alcuni Stati? La risposta è secca: è un palliativo, il modo per spostare l’attenzione da quello che sta succedendo in questa terra.
La terra è un diritto non una concessione.
I coloni
È un incontro atteso ma anche preoccupante. Ci accolgono nella loro azienda vinicola. Esordiscono dicendo che non si riconoscono nella rappresentazione che il mondo offre di loro e per questo, vogliono incontrarci e spiegarci.
«Questa terra ci è stata donata da Dio e se siamo qui c’è una ragione precisa. Questa è una terra che – come sottolineano più volte – abbiamo acquistato e fatto fruttare anche se nessuno credeva che avremmo potuto produrre vini che hanno vinto competizioni mondiali. I palestinesi non ne sarebbero stati capaci. È Dio che ci accompagna in questo. Loro sono diversi da noi, non rispettano alcuna regola. Il 7 ottobre ha cambiato tutto, ci ha fatto perdere la fiducia nei palestinesi, ha decretato la fine della possibilità di un dialogo. Non è più possibile pensare a una convivenza. Due popoli due stati: non è assolutamente praticabile. Per questo l’unica soluzione possibile è la realizzazione di uno Stato israeliano con la presenza di colonie palestinesi autonome all’interno del nostro territorio».
Nessuna parola viene spesa sui coloni e sugli insediamenti abusivi realizzati sottraendo la terra ai palestinesi.
Nessuna parola sul prima del 7 ottobre, sulla occupazione delle terre, sulla mancanza di diritti per i palestinesi, su Gaza.
Colpisce la loro visione della storia attuale legata a quella passata: «Nel luogo in cui abbiamo costruito dalle finestre vediamo la nostra storia» ma non si riferiscono a quella attuale bensì a quella di 3000 anni fa. «La guerra dei 6 giorni è stata incredibile: Dio ci ha guidati alla vittoria». 
Ovviamente non è stato possibile fare alcuna domanda.
Esco da questo incontro con l’amaro in bocca: sarà la prima di tante volte in cui mi sembrerà di intuire che non ci sono speranze per questa terra e per questi due popoli.
Le famiglie cristiane palestinesi
Abbiamo incontrato due giovani coppie cristiano-palestinesi residenti in Cisgiordania o West Bank che dir si voglia.
Nadine e Joseph, con i loro bambini di due anni e mezzo e sette mesi.vCi raccontano di una vita fatta di controlli e richieste di permessi per uscire e spostarsi: un permesso che possono negarti senza alcuna spiegazione.
Lei è ostetrica e lavora a Betlemme e ha un permesso per andare a lavorare che deve rinnovare ogni sei mesi. Lui aveva un’azienda di manufatti con legno d’ulivo che ovviamente non funziona più perché non c’è più turismo e adesso sta a casa a curare le bambine.
Se gli chiedi come sia possibile vivere così, ti rispondono: «Per noi è la normalità, siamo cresciuti così». Dopo il 7 ottobre spostarsi è diventata una delle cose più difficili: «Capita che mentre stai tornando a Betlemme vieni fermato e ti viene detto di tornare da dove arrivi. Così sei costretto a chiedere ospitalità a parenti e amici. L’ultima volta che è capitato abbiamo potuto fare ritorno a casa solo dopo tre mesi». 
Hanno paura e sono quasi certi che finiranno nelle stesse condizioni di chi abita nella striscia.
L’unica soluzione possibile è, per loro, quella di tornare ai confini stabiliti nel 1967, prima della guerra dei 6 giorni.

Incontriamo anche Georgette e Michele, con due bambini piccoli. Anche loro ci raccontano di una vita da sempre condizionata.
«La libertà di pensiero ci è stata rubata. Viviamo in condizioni di chiusura fisica e mentale. Cammina rasente i muri, non fare commenti politici, tieni chiuse le finestre. Siamo cresciuti così. Ci sono momenti in cui ci siamo sentiti abbandonati: le persone devono venire qui, parlare con noi, vedere come vanno le cose. C’è sempre meno terra e ci sono sempre più persone. La possibilità di muoverci, anche all’interno dei territori palestinesi, dipende da Israele. La nostra è una vita sotto controllo: ogni errore che, secondo loro, commetti è un punto nero (nel vero senso di un punto nero che viene disegnato sulla tua carta di identità)».
Dal 7 ottobre sono stati arrestati, in via preventiva, 5000 palestinesi di Betlemme.
La cosa che ti colpisce di loro è che non hanno rabbia per le condizioni in cui sono costretti a vivere: «Non vogliamo che nasca l’odio dentro di noi, non devono vincere con il mio odio».
Per entrambe le famiglie la mancanza di lavoro è cruciale: la zona di Betlemme viveva sul turismo che ora non c’è più. Si sostengono a vicenda, aiutandosi tra amici e familiari. Chi ha ancora un lavoro, perché impiegato in un ospedale o un ufficio pubblico, sostiene chi l’ha perso.
Non hanno la stessa visione sul riconoscimento dello Stato di Palestina ma concordano sul fatto che Hamas ha perso il consenso tra i palestinesi e non li rappresenta più.
Tutti hanno pensato di andarsene ma, alla fine, hanno deciso di restare perché quella è la loro terra.
Anche da questi due incontri si esce con la necessità di condividere la loro speranza in una vita libera e di pace, ma…. Lascia perplessi, però, una cosa: a domanda specifica, rispondono di non conoscere ebrei. «Come possiamo conoscerli se non possiamo uscire da qui?».
Ma se non conosci “gli altri” sarà mai possibile almeno uno scambio di opinioni?

Sindaco di Betlemme
Si chiama Maher Canawati, è sindaco da pochi mesi. Per un accordo stipulato da Arafat, il sindaco di Betlemme deve essere sempre un cattolico.

Ci racconta la sua città, il luogo dove è nata la speranza. E la sua speranza è che Betlemme non diventi un museo a cielo aperto ma continui a essere una città di pietre vive. Tantissimi se ne stanno andando: chi riesce vende tutto e lascia la città. I problemi sono molteplici. Prima di tutto il lavoro: Betlemme vive di turismo e, mancando i turisti e i pellegrini, si è fermata. Nessuno lavora più. Non è possibile attuare politiche di welfare: non ci sono soldi e Israele non passa più quello che passava prima.
Sono seduti su una riserva d’acqua ma Israele non vuole che la si prenda dal sottosuolo: possono prenderla solo se autorizzati.
Dal 7 ottobre stanno cercando di isolare Betlemme, le entrate sono bloccate, si può entrare e uscire solo da pochi varchi. Le strade sono piccole e questo crea un traffico intenso. Stanno cercando di asfaltare alcune strade di passaggio per snellire la circolazione all’interno della città. Una città molto sporca, con cumuli di rifiuti ovunque. Per smaltirli, vista l’impossibilità di portarli nei centri di smaltimento o di crearne alcuni all’interno, li seppelliscono o li bruciano, con tutte le conseguenze del caso.
Il suo appello: «Vogliamo vivere in pace, con tutte le religioni. Vogliamo tornare alla pace.
Abbiamo bisogno che voi parliate della nostra situazione, che diciate alle persone che non è pericoloso venire nella nostra terra, che riprendano i pellegrinaggi. Solo questa ripresa farà tornare il lavoro e le famiglie non se ne andranno.
Abbiamo un forte legame con l’Italia: siamo gemellati con 38 città, riceviamo aiuti e sostegno ai nostri progetti».
Dopo questo incontro ho realizzato la fortuna di essere la sindaca di una città come Gorgonzola.

Patriarca Cardinale Pierbattista Pizzaballa
Un incontro atteso con emozione e speranza. Inevitabile parlare con lui della sua recente permanenza a Gaza.

«A Gaza ci sono 2 milioni di persone, non c’è acqua, non c’è corrente, non c’è la fognatura. La città è rasa al suolo, rimangono in piedi poche strutture in cui alcuni hanno trovato rifugio. Gli altri vivono nelle tende. Non c’è cibo, non ci sono medicine. Noi cerchiamo di portarli ma ogni carico, che basta a sfamare solo circa 60 mila persone, per entrare deve passare i controlli della dogana, dell’esercito e dei servizi segreti. Certi cibi non sono ammessi senza alcun motivo. Per esempio la carne in scatola. Cucinano due volte alla settimana facendo il fuoco con la legna recuperata dalle macerie. I bambini sono i più colpiti: la mancanza di proteine li rende sempre più stanchi, con poche forze.
La soluzione di gettare il cibo dall’alto non ha senso: in primo luogo perché non sai dove cadrà e poi, perché, sono i più forti a goderne.
Hamas non è giustificabile non solo per quello che ha fatto il 7 ottobre, ma, anche, per la sua durezza nei negoziati e tutto il resto. Niente, però, può giustificare quello che sta succedendo nella striscia di Gaza.  Allo stesso modo mi sento di condannare gli episodi di antisemitismo nel mondo perché un conto è il governo, un altro la popolazione. Molti ragazzi israeliani hanno preferito andare in carcere per diserzione non accettando di andare a sparare contro i palestinesi. Sanno che questa sarà un’onta sul loro futuro ma hanno fatto una scelta di pace. 
La Chiesa lavora con queste persone, sul territorio, con chi ha scelto la via della pace a prescindere dalla propria religione. La Chiesa deve parlare con chiarezza, non può essere neutrale di fronte a quanto sta succedendo e non può non dare fastidio: devo parlare anche se quello che dico disturba. A oggi non c’è soluzione: in questo momento è Israele che ha la chiave del comando».
Un grande uomo, un uomo di fede e di speranza: è la Chiesa che mi piace.
Al termine dell’incontro ho consegnato al Patriarca una copia dell’appello firmato da sindache e sindaci italiani in cui chiediamo al Governo che si attivi per far entrare a Gaza gli aiuti alimentari. E, non potendogli portare una forma di gorgonzola, gli ho regalato una maglietta con la scritta “keep calm and eat gorgonzola”. 
Ovviamente lo aspettiamo tra noi, se non alla sagra, quando avrà occasione di passare da queste parti.
All’uscita dal Patriarcato abbiamo incontrato il segretario del Cardinale che si occupa della gestione degli aiuti a Gaza. Ci racconta che il giorno prima sono stati 12 ore alla frontiera nella speranza di far entrare un carico di medicinali ma, alla fine li hanno rispediti indietro. Ci riproveranno di nuovo: “se non è oggi sarà domani”.
Volontario docente di italiano a Betlemme
Si chiama Rocco, ha 29 anni e insegna italiano a Betlemme. Si è laureato con una tesi che affronta la possibilità di una soluzione federale tra i due popoli. Quello che lui sa, che ha imparato stando in Israele e che ci trasmette, è importante per cercare di comprendere una situazione molto complessa.
«Israele non ha una Costituzione, ha delle leggi fondamentali che regolano lo Stato.
Non è uno stato laico ma ebraico sionista, infatti il fondamento è che sei israeliano in quanto appartenente alla religione ebraica.
Oggi gli israeliani sono costituiti da tre grossi gruppi (al loro interno molto frammentati):
- I coloni: circa 800 mila ai quali sarà necessario pensare in vista di una soluzione che suddivida il territorio (posto che questi hanno occupato abusivamente le terre palestinesi, si sono insediati e ora fanno quello che vogliono, soprattutto dopo il 7 ottobre, godendo di una speciale impunità). Sono un movimento che fa lobby e che vota. Girano tutti armati con il pretesto della sicurezza. Alcuni di loro sono stati espressamente chiamati per fare ritorno in Israele. Hanno in media 4 figli a coppia.
- Gli ultraortodossi: sono circa il 13% della popolazione israeliana, non lavorano, non pagano le tasse, sono esenti dal servizio militare, votano. Lo stato passa loro un contributo perché possano dedicarsi allo studio della torah, hanno 613 precetti da rispettare secondo la legge. Hanno in media 6 figli a coppia.
- I laici: votano, lavorano, seguono le leggi dello stato, vivono prevalentemente a Tel Aviv. Non ne possono più di mantenere, con le loro tasse, gli ultraortodossi. Hanno in media 2 figli a coppia.
A questi vanno aggiunti gli arabo-israeliani e i drusi.
Insomma, la situazione “etnica” è davvero complicata e questo rende, a sua volta, complicato, trovare una soluzione.
La proposta più attuabile, in questo momento, pare essere quella di una federazione che imporrebbe il passaggio a uno stato laico e che preveda l’istituzione di “cantoni” autonomi arabi, israeliani e anche drusi».
Si capisce subito che i passaggi da fare sarebbero tanti e, soprattutto, difficili e complicati. Rocco ci tiene a precisare di aver scritto la sua tesi prima del 7 ottobre e che adesso, alla luce di quel giorno, anche questa soluzione sembra impraticabile.
Ci lascia, però, una speranza e, cioè, che sia possibile almeno pensare a una soluzione!

Responsabile spianata delle Moschee
Dal 2000 non è più possibile entrare a visitare le Moschee che oggi si trovano sulla spianata del tempio; la moschea della Roccia e la moschea di Al Aqsa. Ma noi ci riusciamo e ci accompagna il responsabile delle moschee. Ovviamente per entrare abbiamo dovuto coprirci interamente, soprattutto noi donne, letteralmente dalla testa i piedi. All’interno ci colpisce la bellezza dei mosaici, dei tappeti, delle colonne (alcune donate da Mussolini). Pochi fedeli all’interno, soprattutto anziani, in preghiera. Le parole del custode ricordano, nei contenuti, quelle dei coloni.
«Per prima cosa voglio sottolineare la santità del luogo in cui ci troviamo: tutta la spianata è sacra, non solo le moschee.
Questo luogo ci è stato dato da Dio e, sicuramente, c’è un motivo per cui siamo qui.
Il 7 ottobre era prevedibile poiché a maggio gli Israeliani hanno assaltato la moschea Al Aqsa profanando un luogo sacro. Tanti popoli sono passati da qui ma tutti se ne sono andati e noi siamo ancora qui. Lo stesso sarà per gli ebrei che hanno la responsabilità di ciò che sta accadendo perché non hanno rispetto per nessuno. Noi siamo un popolo di pace, vogliamo la pace. Loro ci incarcerano senza motivo (nel frattempo racconta dei suoi 9 anni di carcere e del figlio della signora che fa le pulizie alla moschea e che è da 5 anni in carcere senza che nessuno abbia ancora detto perché). La mia casa è a Gerusalemme est: dalle mie finestre vedo la spianata e le moschee». 
Nessuna parola sui diritti negati delle donne, su Gaza e su Hamas. Sembra lo stesso punto di vista dei coloni, solo da un’altra prospettiva. Ancora una volta usciamo da questo incontro con la sensazione che non se ne esce, che non c’è, al momento una soluzione.
Ebrei italiani a Gerusalemme
Sono persone che hanno vissuto e vivono ancora in Israele, hanno la loro famiglia, figli e nipoti, sono italiani (mantengono un forte accento romano) ma si sentono israeliani.
«La guerra è un prezzo che stiamo pagando tutti, israeliani e palestinesi. Dopo il 7 ottobre è cambiato tutto. Quello che vogliamo è il ritorno della pace perché tutto torni come prima. La terra, però, è nostra, l’abbiamo conquistata e spetta a noi».
È vero, dopo il 7 ottobre tutto è cambiato… per loro. Per i palestinesi tutto è peggiorato. Anche prima, infatti, non potevano circolare liberamente, non avevano diritti e la loro terra veniva portata via dai coloni. Come per le famiglie palestinesi, però, il desiderio rimane quello della pace o, almeno, di tornare a prima di quel fatidico 7 ottobre che ha interrotto ogni tipo di dialogo.
Emmaus
Non si poteva concludere che qui questa breve esperienza. È qui che i discepoli, delusi da un Gesù che non era, ai loro occhi, il liberatore aspettato, incontrano Cristo risorto e partono per annunciare a tutti che l’hanno visto. In questa terra martoriata dove la Bibbia, la Torah e il Corano potrebbero convivere pacificamente, la guerra e la violenza non hanno mai smesso di condizionare la vita e la politica.
Ogni incontro ha aperto la porta su un mondo più vasto, su intrecci e complessità che ogni volta mi facevano concludere con la frase “non ne usciamo”. Allo stesso tempo, però, è proprio chi vive in una condizione che sembra disperata, che mi hai trasmesso la speranza in una soluzione di pace e giustizia.
Una cosa è certa: non possiamo lasciarli soli. Serve schierarsi dalla parte di chi crede nella possibile convivenza di due popoli, rischiando la propria vita e la propria libertà.
Allora non smettiamo di informarci, di tenere la luce accesa e di agire dove e come è possibile.


 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
         
         
         Lorella Beretta
Lorella Beretta 
         
         
        