C’era una volta la “cultura della giurisdizione“, che accomunava, o avrebbe dovuto accomunare, pubblico ministero e giudice, e che poteva avere come partecipi anche gli avvocati, tutti tesi a realizzare dai diversi ruoli quel fine generalmente condiviso del processo che si può riassumere nel termine “giustizia”. Nel corso del tempo si è ritenuto che questa comune base culturale potesse incidere negativamente sulla acquisizione e sul valore delle prove, oltre che nella valutazione delle tesi difensive, tanto da risultare in contrasto con il principio del giusto processo affermato dal’art.111 della Costituzione, che impone il contraddittorio anche nella formazione della prova e condizioni di parità tra le diverse parti processuali. Si è quindi ritenuto che la terzietà del giudicante sarebbe stata meglio garantita, nel quadro del nuovo modello accusatorio, dalla “cultura della legalità”, soltanto con una progressiva separazione delle carriere (in realtà avviata da tempo) e con il superamento dei sistemi elettorali per la nomina del Consiglio superiore della magistratura. A singoli casi di gravi distorsioni, si è risposto cercando di ridurre i poteri di autogoverno e di accrescere il controllo indiretto dell’esecutivo sugli organi giurisdizionali.
Al di là della effettiva ricaduta pratica della riforma dell’ordinamento giudiziario, su questi temi si sta giocando una partita durissima, in vista del referendum previsto per il prossimo anno, in una fase politica che di fronte ad una maggioranza compatta, malgrado qualche sortita elettoralistica, vede crescere giorno dopo giorno le divisioni tra le forze di opposizione. Con una precisa scelta di tempo, su questa materia già assai confusa, si è sovrappostauna campagna di stampa per gettare discredito su quella parte della magistratura, della dottrina, e dell’avvocatura associata, che in materia di immigrazione ed asilo si sono richiamate ai principi costituzionali ed alla giustizia internazionale, con provvedimenti che sono stati confermati dalla Corte di Cassazione, e dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Si è tentato di ricorrere a veri e propri argomenti di distrazione di massa, talvolta meramente allusivi, per nascondere i fallimenti del governo su tutti i principali dossier in materia di immigrazione e asilo, a partire dal blocco quasi totale dei trasferimenti in Albania. Si sono moltiplicati così gli attacchi velenosi ai giudici che adottavano provvedimenti non graditi al governo (“toghe rosse”), all’avvocatura non ancora succube degli indirizzi della maggioranza, agli operatori dell’accoglienza che si opponevano ai respingimenti indiscriminati ed alla dispersione dei richiedenti asilo sul territorio, a chi continuava ad operare soccorsi in mare, ai difensori dei diritti umani che si richiamavano alla giurisdizione internazionale (come alla Corte Penale internazionale nel caso Almasri). Si è arrivati addirittura al punto di ritenere la comune partecipazione ad un convegno (“convegni come verdetti”), ad una associazione o alla redazione di una rivista, come prova di intese volte a contrastare l’azione di governo.
L’aggancio della riforma della magistratura con le questioni più critiche in materia di immigrazione e asilo risale nel tempo. Il ministro Salvini, a novembre dello scorso anno, dopo una sentenza del Tribunale di Roma che non convalidava alcuni provvedimenti di trattenimento di migranti trasferiti in Albania dichiarava testualmente che “è arrivato il momento di approvare la separazione delle carriere e la responsabilità civile personale dei giudici che sbagliano”. Da anni il governo sta facendo di tutto per intimidire i giudici, basti pensare al linciaggio subito dalla dott.ssa Apostolico. Adesso si vorrebbe bloccare addirittura la Corte dei conti dopo gli esposti presentati da Action Aid e dall’Università di Bari, per gli sprechi enormi che si stanno continuando ad accumulare con lo svuotamento dei centri in Albania, senza che da Bruxelles sia arrivato un qualsiasi atto legislativo che fornisca base legale alla detenzione amministrativa esternalizzata al di fuori dei confini dell’Unione europea. Si inventano combine giudiziarie quando il giudice si limita ad applicare la legge, in conformità al dettato costituzionale, e non secondo gli orientamenti della maggioranza di governo.
Eppure, proprio i processi penali in materia di immigrazione ed asilo confermano orientamenti divergenti tra giudicanti e pubblici ministeri con un ruolo attivo degli avvocati nella realizzazione del fine ultimo del processo, l’affermazione della giustizia. Basti pensare all’assoluzione nel 2024, dopo sette anni di processo, degli operatori umanitari coinvoltinel caso Iuventa, alle decine di archiviazioni decise, contro le richieste dell’accusa, in numerosi procedimenti penali intentati contro le ONG che operavano soccorsi nel Mediterraneo centrale. La stessa autonomia dell’organo giudicante rispetto alle richieste dell’accusa si è riscontrata anche nei diversi procedimenti penali che hanno riguardato il senatore Salvini, dal caso Gregoretti al caso Diciotti. Come emergerà, comunque vada, anche dalla prossima attesa decisione della Corte di Cassazione sul caso Open Arms, il prossimo 17 dicembre, sul ricorso presentato dalla Procura contro la sentenza di assoluzione adottata dal Tribunale di Palermo a dicembre dello scorso anno. Una sentenza che ha però dimostrato come anche le assoluzioni possano avere un peso diverso, a seconda degli imputati, se si pensa ai tantipresunti scafisti che sono stati assolti dopo anni di ingiusta detenzione, senza suscitare alcun clamore nell’opinione pubblica.
Se poi si vuole guardare allesentenze di non convalida delle misure di trattenimento nei CPR, o di annullamento dei rigetti delle domande di asilo, e dunque delle conseguenti espulsioni, ad una considerazione complessiva, senza limitarsi al caso singolo, evidenziato magari per ragioni personalistiche o intimidatorie, la “cultura della giurisdizione” condivisa dalle corti interne sembra correttamente orientata all’attuazione dei principi costituzionali, al sistema gerarchico delle fonti normative, alla rilevanza del diritto internazionale ed euro-unitario, così come impone l’art.117 della Costituzione. Contro questa cultura della giurisdizione, o meglio, contro quello che ne rimane, è partita adesso l’offensiva finale.
Gli attacchi più recenti provenienti dalle pagine del Giornale assumono caratteri innovativi e più preoccupanti che in passato perché risultano coordinati con precise iniziative politiche, come interrogazioni parlamentari e dichiarazioni di presidenti di regione. Insinuazioni, sullo stesso terreno della giustizia e delle migrazioni, dove non si può distinguere tra profili politici e tecnica giuridica,che si rivolgono non solo contro singoli magistrati ma, allo stesso tempo, contro avvocati ed operatori dell’accoglienza. Attacchi non solo mediatici, che esprimono l’insofferenza della maggioranza di governo verso i difensori dei diritti umani e le istituzioni di garanzia che non si conformano ai suoi indirizzi. Attacchi che mettono a rischio imprescindibili valori costituzionali, diritti civili e politici che sarebbero inviolabili, come la libertà di espressione, la libertà di associazione e il diritto di difesa. Attacchi che non sono, a loro volta, espressione di un legittimo diritto di critica o di manifestazione del pensiero, ma che tendono attraverso la falsificazione, o con suggestive allusioni, alla criminalizzazione del “nemico”, e che quindi devono costituire un segnale di allarme per la nostra democrazia, per la potenza comunicativa e per il livello dal quale provengono. Un coordinamento sempre più evidente tra attori politici, testate giornalistiche e operatori della sicurezza, che segna un innalzamento del potenziale offensivo verso chiunque sia individuato come ostacolo rispetto all’azione di governo. Dietro la separazione delle carriere dei magistrati, segno evidente di un progressivo ridimensionamento del ruolo della giurisdizione, emerge sempre più evidente un progetto complessivo di redistribuzione dei poteri, a tutto vantaggio dell’esecutivo. Una svolta autoritaria abilmente camuffata dietro un populismo di facciata giocato sulla pelle dei più deboli,in nome della sicurezza e della difesa dei confini.
Tutto questo porterà, come sembra sempre più probabile, allo smottamento definitivo della cultura della giurisdizione ed alla introduzione sostanziale del principio maggioritario nell’applicazione della legge, se non vi saranno forze politiche e corpi sociali in grado di opporsi a questo disegno eversivo degli equilibri costituzionali. La democrazia in Italia è a rischio. Dietro il rispetto apparente delle forme democratiche emerge sempre più evidente una egemonia culturale e politica delle destre che, contando su una forte maggioranza parlamentare, stanno riducendo attraverso leggi ordinarie l’attuazione effettiva dei principi costituzionali. Occorre uscire fuori dai recinti professionali, e dalla separazione tra tecnica e politica, superare gli angusti confini della delega e della rappresentanza e guardare anche oltre il referendum sulla giustizia, il cui esito potrebbe essere scontato. Per rimettere con forza al centro del dibattito pubblico, con attività di formazione e di denuncia, dentro e fuori i tribunali, il tema della giustizia, e dunque della indipendenza della magistratura, al pari dei diritti di difesa, come garanzia per i diritti civili, sociali, politici di ciascuno, comprese le persone migranti ed i cittadini di tutte le fasce sociali, nessuno escluso.

