Nel dibattito che ha accompagnato la proposta e quindi l’approvazione della legge sulla cosiddetta separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e pubblici ministeri, domina una totale confusione sia linguistica che di contenuti. 
I sostenitori della legge la definiscono “riforma della giustizia”, nobilitandone oltre misura la finalità specifica, che ha in effetti un impatto limitato e non riguarda “la giustizia” bensì aspetti organizzativi della magistratura. D’altra parte, è evidente che l’interesse – sia dei proponenti che dei detrattori – verso questa legge, e l’acceso confronto che essa ha suscitato, non sono giustificati dal suo contenuto specifico, bensì dal fatto che resuscita e catalizza un vortice di timori, recriminazioni, aspettative e delusioni che da molti anni caratterizzano il rapporto tra il potere esecutivo, i cittadini e il sistema della giustizia. 
Proprio in questi giorni ne abbiamo avuto una dimostrazione lampante: la decisione della Corte dei Conti di non concedere il visto di legittimità e la registrazione alla delibera CIPESS riguardante il ponte sullo Stretto di Messina ha scatenato commenti significativi da parte del Governo: la decisione dei giudici contabili è stata definita una “invasione della giurisdizione sulle scelte del governo”, addirittura “un’intollerabile invadenza”, quasi che il compito di controllo che la legge attribuisce alla Corte dei Conti, e che ne costituisce la funzione istituzionale, fosse invece illegittimo, un esorbitare dai propri limiti. In questo contesto, la legge Nordio – pomposamente rinominata “riforma costituzionale della giustizia” – è stata invocata, insieme ad una fantomatica riforma della Corte dei Conti, quale “risposta più adeguata alla intollerabile invadenza” dei giudici.
Sono parole e prese di posizione violente ed eccessive, fatte per dividere, per presentarsi come vittime, per costruire nemici.
È facile vedere in queste, come in centinaia di altre analoghe dichiarazioni da parte della destra – dai tempi dei governi Berlusconi – l’insofferenza verso i controlli in quanto tali, e la volontà di esentare l’esercizio del potere esecutivo dalle limitazioni poste dalla legge, sulle quali il potere giudiziario è chiamato a vigilare.
Al di là dunque dei suoi contenuti specifici, il dibattito sulla legge Nordio e sul referendum confermativo che seguirà nei prossimi mesi è e continuerà ad essere caratterizzato da un ventaglio di argomenti che ben poco hanno a che vedere con il contenuto della legge e molto di più con il complicato rapporto che il nostro paese ha con il potere giudiziario.
Assistiamo infatti – da parte del governo e di alcuni sostenitori della legge – al lancio di accuse offensive nei confronti della magistratura in quanto tale, all’evocazione ingigantita di (presunti) casi di “mala giustizia”, a feroci critiche per la lentezza e l’inefficienza del sistema, come se questi difetti non dipendessero anche proprio dalla esiguità delle risorse che il potere esecutivo destina a questo settore della pubblica amministrazione.
Ma il fronte dei sostenitori della “separazione delle carriere” è variegato: si nutre anche di parole d’ordine efficientiste, sedicenti garantiste, che ci vogliono convincere che istituire due CSM renderà il servizio giustizia più rispondente alle esigenze dei cittadini. Parole vuote: migliorare il servizio giustizia nel nostro paese richiede uno sforzo enorme, risorse importanti e collaborazione in buona fede; il contrario rispetto alla volontà di demonizzare i pubblici ministeri.
A questa varietà di argomenti corrisponde una varietà di obiettivi: quello di svincolare il potere esecutivo da ogni controllo è in prima linea e si collega perfettamente con il progetto legislativo del cosiddetto “premierato”. Altri argomenti più sfumati si rivolgono a chi si sente limitato da troppe regole, a chi ha magari alle spalle qualche incontro spiacevole con il sistema della giustizia, a chi pensa che la libertà coincida con l’assenza di limiti.
Vi è poi un argomento totalizzante quanto ingannevole: chi si oppone alla legge Nordio si oppone al rinnovamento, e dunque è un conservatore, un retrogrado. In un paese connotato da immobilismo e stagnazione in molti ambiti, l’invito al cambiamento purchessia può risultare convincente per molti.
Se questo è il quadro – caratterizzato da una distonia tra la posta in gioco apparente, la legge Nordio, e quella reale, cioè la divisione dei poteri disegnata dalla nostra Costituzione – come possiamo riuscire a contrastare efficacemente la articolata manipolazione mediatica che i sostenitori del sì al referendum di primavera stanno montando?
Come possiamo fare per convincere i non tecnici, i giovani, coloro che da tempo non votano e si considerano disillusi dalla politica che dire no alla legge Nordio significa fermare il primo passo di un processo di disarticolazione delle nostre istituzioni?
La finalità di questa forzatura da parte della destra si chiarisce se la si inserisce nel contesto formato dalla frammentazione del paese (la cosiddetta autonomia differenziata) e dal progetto del cosiddetto premierato: una torsione in senso autoritario e antidemocratico del nostro ordinamento, che ne aggraverà i problemi e le fragilità. Occorre chiamare tutti a contrastare questo disegno.


 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
     
         Lorella Beretta
Lorella Beretta 
         
         Nadia Urbinati
Nadia Urbinati 
         
        