Le recenti affermazioni di Meloni contro i manifestanti per la pace, i lavoratori aderenti allo sciopero del 3 ottobre scorso e infine la sinistra tutta battezzano la nascita di un nuovo linguaggio, volutamente alieno rispetto alla realtà delle cose.
Ricordiamole: i manifestanti per la pace sono “figli di papà”, i lavoratori aderenti allo sciopero per Gaza ambiscono a godere di un week end lungo, la sinistra tutta è peggio di Hamas, è un gigantesco centro sociale.
Molti ne hanno riso, molti si sono arrabbiati, alcuni si sono spinti a dire che, così facendo, Meloni tradirebbe se stessa, ovvero la sua presunta statura istituzionale. A mio avviso occorre prendere molto sul serio la neolingua meloniana: affermazioni come quelle sopra ricordate non sono casuali né dettate da una emotività improvvisa. Al contrario, rispondono ad una scelta di comunicazione che ha cominciato ad emergere chiaramente e che rispecchia quella già efficacemente sperimentata negli Stati Uniti da Donald Trump.
Per chi compie questa scelta la realtà non conta nulla: è evidente che equiparare il centro-sinistra ad Hamas (anzi peggio) è un’affermazione ridicola, se misurata con i parametri della veridicità. Lo è stata anche l’accusa di Trump secondo cui gli immigrati mangiano i gatti e i cani, e tuttavia ha funzionato.
Si tratta di attacchi verbali diretti contro i propri nemici che prescindono dal criterio della fondatezza e si propongono unicamente di identificare persone o gruppi sociali come contrapposti, connotati in maniera così negativa da risultare addirittura abnormi. Il linguaggio di Meloni mira a costruire il nemico, l’altro da sé come talmente orribile (peggio di Hamas) che nessuna incertezza, nessuna mediazione è possibile.
È dunque una violenta chiamata alle armi, che esprime la volontà di gettare discredito su chi manifesta opinioni diverse dalle sue a prescindere da qualsiasi fondamento reale delle accuse lanciate.
Occorre a questo punto chiedersi: perché funziona? A quali emozioni fa appello questo linguaggio permeato di odio e indifferente alla realtà?
Una prima possibile risposta è che si tratta di un linguaggio semplificatore: noi siamo i buoni, chi è altro da noi è non solo criticabile ma addirittura mostruoso, criminale (Hamas). Inutile attardarsi in distinzioni, in compromessi, nella ricerca di terreni comuni. In un paese con i livelli di istruzione più bassi tra i paesi OCSE, semplificare paga. E tuttavia mi pare esserci qualcosa di più profondo nel pubblico che applaude alle sortite di Meloni: la voglia di costruire un nemico esecrabile, al quale si possa rinfacciare tutto il male che si prova, contro il quale si possa dirigere una rabbia indiscriminata, in quanto responsabile di tutto ciò che non va nella propria vita.
La scelta comunicativa di Meloni vuole sollecitare questa adesione emotiva, questo travaso di ostilità verso soggetti identificati come nemici al di fuori di qualsiasi aggancio ai loro comportamenti o opinioni reali.
Esattamente come è stato per Trump, le accuse fantasiose, esagerate, irreali possono essere recepite da una parte del pubblico in forza di una identificazione del tutto irrazionale con il leader, identificazione che offre una importante gratificazione: quella di appartenere; appartenere alla parte che si auto definisce buona, e che per di più detiene un grandissimo potere.
Siamo di fronte ad un linguaggio del potere che – anziché scegliere di parlare al paese mediando i conflitti e confrontandosi con la realtà – decide di aggravare le differenze, di dipingere l’altro come odioso e impotente (la pace non la fanno i manifestanti con le bandiere, la fa il capo), di stravolgerne i tratti fino a farlo apparire criminale (Hamas).
È un linguaggio di consapevole falsificazione, che antepone la ricerca del vantaggio elettorale ad ogni superiore considerazione. È un linguaggio irresponsabile, estremamente pericoloso.