Una settimana al Centro diurno per migranti di Trieste

25 Settembre 2025

Giovanna Procacci Sociologa

Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

Trieste, i richiedenti asilo in piazza della Libertà, dove opera Lorena Fornasir. Foto di Giovanna Procacci

Dal confine orientale italiano, la cronaca, i volti, i nomi, le storie delle persone che arrivano chiedendo protezione umanitaria: in una condizione d’incertezza, «in balìa di politiche ostili ai migranti».

Sono stata per una settimana a fare volontariato al Centro diurno di Trieste con ResQ.
ResQ è un’associazione nata a Milano per fare soccorso nel mar Mediterraneo, ha una barca con cui svolge missioni di soccorso nella rotta del Mediterraneo centrale. Da un anno e mezzo però ha anche avviato un volontariato di terra in collaborazione con ICS, il Consorzio Italiano di Solidarietà di Trieste diretto da Gianfranco Schiavone, uno dei padri del sistema di accoglienza diffusa in Italia – gli ex-SPRAR ora SAI, che rispondono alla cosiddetta “seconda accoglienza”. ICS gestisce in effetti un numero importante di persone in accoglienza diffusa, circa 850 persone in 150 appartamenti; un enorme impegno organizzativo che non esaurisce però l’attività del Consorzio, il quale partecipa anche ad una rete ampia di associazioni che cercano di rispondere in vario modo, in un vuoto di risposte istituzionali, ai bisogni di prima accoglienza. 

Il Centro diurno fa parte di questa rete. È un centro privato, tenuto dalla Comunità di S. Martino al campo e da ICS, con il contributo di Diaconia Valdese, Linea d’Ombra ed altre realtà del territorio. È aperto tutti i giorni dell’anno, compresa la domenica e altre festività; accoglie dalle 8:30 alle 19 quei migranti che sono in strada e non accedono alle misure di accoglienza. Si tratta di richiedenti asilo che attendono che venga loro assegnato il posto di prima accoglienza perché, sebbene la legge preveda che siano accolti subito appena presentano la richiesta, nei fatti passano settimane prima che gli venga assegnato un posto. Altri migranti che si appoggiano al centro diurno sono coloro che non intendono fermarsi a Trieste, che restano poco, qualche ora o qualche giorno, giusto il tempo di riprendere fiato. In sostanza, qui incontri le persone che sono attraverso la cosiddetta rotta balcanica.

Il Centro è gestito da operatori sociali, operatori legali e mediatori linguistici. I migranti vi trovano un luogo dove ripararsi e riposare, accedere a servizi igienici e docce, ricaricare i cellulari, lavare i vestiti, prendere un thè caldo o altri piccoli generi di conforto. C’è anche un servizio di informazione e tutela legale su diritti e procedure, molto attivo, in collaborazione con l’ufficio legale di ICS. Il Centro offre anche un corso di italiano aperto a tutti, organizzato da volontari di Linea d’ombra, e un ambulatorio medico gratuito a libero accesso a cura dell’associazione Donk Humanitarian Medicine. 

Arrivi a Trieste con l’idea di capire un po’ meglio cos’è la rotta balcanica, quel lunghissimo viaggio che porta fin qui a piedi da lontano, lontanissimo, tanti afgani, pakistani, siriani, bengalesi, ecc. ecc. Ne hai letto, sai che ci vogliono mesi se non anni per arrivare, sai delle tante polizie che si susseguono, tutte più o meno dedite a respingere, picchiare, rinchiudere, sai dei passatori che lucrano su chi viaggia. Però vedere da vicino chi arriva e come arriva, incrociare i loro sguardi, raccogliere le loro storie, è un’altra cosa.

Quando le porte del Centro si aprono al mattino, è tutta un’umanità che vi si precipita dentro, con i suoi volti, i suoi bisogni, le sue voci, che riempiono tutti insieme un unico grande spazio e nello stesso tempo trovano il modo di coesistere. Appena entrati, tutti si riversano sulle prese di corrente per ricaricare i cellulari; per quanto numerose non sono mai abbastanza, c’è sempre chi rimane all’asciutto e deve aspettare. Intorno alle prese, fioriscono a poco a poco le sedie e si organizzano rapidamente piccoli gruppi di persone per nazionalità o per lingua o per età. Poi si avviano alla spicciolata verso i vari servizi, mentre qualcuno si immerge in una partita a scacchi o a calcetto, qualcun altro apre un libro, qualcuno stende un tappeto e prega. Quando arrivano i volontari di Linea d’Ombra appare dal nulla una grande lavagna e il tavolo grande diventa “la classe” che raccoglie gli allievi, mentre tutt’intorno continuano le altre attività. Il rito del thè coi biscotti spezza la mattinata, e lo stesso avviene a metà pomeriggio: tutti in fila per questo momento di ristoro. Mentre lo servi incroci i loro sguardi, scambi sorrisi, è un momento di gentilezza reciproca.

A volte, è anche l’inizio di uno scambio più diretto. Ci sono infatti dei momenti più calmi, in cui improvvisamente si attenua un po’anche il rumore delle voci, ci si può avvicinare a qualcuno e provare a scambiare, oltre agli sguardi, anche qualche parola. Dipende dalla lingua, certo, ma anche dalla situazione, dallo stato d’animo, dal carattere; ci sono persone che preferiscono non parlare, altre che invece hanno molta voglia di raccontarsi, che sono contenti di parlarti del loro viaggio o che hanno bisogno di sfogarsi per le infinite difficoltà che incontrano. 

E così scopri che la rotta balcanica non è un’unica via sempre uguale a sé stessa. C’è una geografia della rotta. Intanto, dipende da dove vieni: gli afgani passano dall’Iran e dalla Turchia, dove molti si fermano a lavorare per poter continuare il viaggio, che perciò si allunga di mesi, se non di anni. Dal Bangladesh invece arrivano in aereo fino in Croazia, e iniziano lì la rotta: è il tratto più difficile e pericoloso, ma dura molto meno. C’è però anche una dimensione temporale che la differenzia: nel racconto di Safi, Shahid e Arif, i mediatori culturali che si alternano al Centro, che sono arrivati a Trieste tanti anni fa e sono ormai pienamente integrati, all’epoca loro, 15-18 anni fa, il viaggio lungo la rotta balcanica si faceva in molto meno tempo e con meno rischi. Uno di loro mi diceva: “la rotta balcanica che ho fatto io nel 2009 è un paradiso rispetto a quella di adesso”. E poi c’è quell’attenzione particolare a chi è appena arrivato: gli operatori sanno riconoscerli e subito vanno a verificare che bisogni hanno, biancheria pulita, cellulari, se vogliono restare o continuare il viaggio, ecc. ecc. La rotta balcanica segna chi l’ha appena fatta, e richiede molto tempo per essere smaltita.

Anzi, scopri anche che la rotta non finisce mai. Mi ha sorpreso incontrare tante persone che non vengono direttamente dalla rotta balcanica, che l’avevano sì fatta, ma anni fa, ed erano pure riusciti ad arrivare da qualche parte, ad avviare un progetto di vita, distrutto anni dopo dal diniego dell’asilo e dalla paura di essere respinti all’origine. Si può pensare di respingere qualcuno in Afganistan? Dopo tutto quello che è successo, dopo aver abbandonato il paese in mano ai talebani e aver gridato ai quattro venti che avremmo accolto gli afgani che riuscivano a venire via, è ancora possibile immaginare di respingere qualcuno laggiù? Ebbene, pare proprio di sì. Anzi, mi diceva l’operatrice legale che in questo periodo al Centro arrivano quasi più persone da Germania Francia Belgio Svezia, che non dalla rotta balcanica. Scappano quando gli viene definitivamente negato l’asilo, salvo che nel frattempo hanno lavorato, imparato la lingua, si sono costruiti dei legami. E vengono in Italia perché sanno che da qui non possono essere rimandati in Afganistan.

È la storia di K., che ha lasciato l’Afganistan a 21 anni, oggi ne ha 25; aveva fatto la rotta balcanica ed era riuscito ad arrivare in Francia, ha vissuto 3 anni a Marsiglia lavorando nella ristorazione. La città gli piaceva, il lavoro anche, ha imparato bene il francese. Ma poi è successo che gli è stato negato l’asilo, e così gli è toccato abbandonare tutto e venire in Italia. Anche Q. era riuscito ad arrivare fino in Belgio, dove aveva lavorato per 3 anni nella logistica; poi è stato un anno e mezzo in Germania dove ha chiesto l’asilo, ma quando glielo hanno negato è scappato per evitare di essere rimandato in Afganistan. M. in Germania c’è stato addirittura 5 anni, faceva l’assistente sanitario; poi gli hanno negato l’asilo, ha visto la polizia che lo cercava a casa sua per il respingimento, ed è scappato, fino a ritrovarsi al Centro diurno di Trieste.

Aleggia sempre dietro queste conversazioni una condizione d’incertezza fondamentale, dove neanche i diritti possono rassicurare, perché tutto è sempre in balìa di politiche ostili ai migranti. Qualcuno ti dice dove dormirà quella sera, qualcun altro non lo sa, qualcun altro non ne parla. Certo che quando alle 19 il Centro chiude, tutti si avviano a piedi alla piazza della Libertà, a qualche centinaio di metri dal Centro, di fronte alla stazione centrale; lì troveranno un pasto caldo, tanti migranti e tanta solidarietà. Lorena Fornasir si prende cura delle loro ferite, Linea d’Ombra ed altri volontari distribuiscono il pasto e chiacchierano con loro, si distribuiscono zaini scarpe e giacche a chi è appena arrivato, che qui ha addirittura uno spazio dedicato in cui collocarsi per farsi riconoscere. Passare del tempo nella piazza fa bene: ho visto una solidarietà vera e una cura gentile, ma soprattutto ho scoperto una comunità di persone che la mettono in atto con semplicità, che si organizzano intorno ai bisogni dei migranti e vengono lì con pentole e pacchi, che visibilmente li conoscono e li riconoscono, e fanno tutto con allegria e col sorriso, col piacere di fare cose insieme. È tutta una rete di persone che si attiva per mettere in campo una attività solidale che le istituzioni si rifiutano di svolgere. Un dettame della nostra Costituzione che è affidato solo all’iniziativa personale e privata, e che l’amministrazione pubblica semplicemente diserta.

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