Daniela Padoan: Quali pericoli vede nella situazione italiana e nel progressivo avanzare delle destre nella conquista del potere politico negli Stati Uniti, in Argentina e in diversi paesi europei?
Judith Butler: Ho trovato inquietante l’ascesa di Giorgia Meloni sia per la strategia comunicativa di conquista del consenso sui temi peculiari della destra, che ha sostituito il discorso incendiario al giudizio informato, sia per il modo in cui principi costituzionali e diritti umani vengono via via percepiti come irrilevanti o facilmente eludibili. Le persone i cui diritti fondamentali sono colpiti dalle sue politiche includono genitori appartenenti alle comunità trans, gay e lesbica, donne che chiedono di accedere alle tecnologie riproduttive, migranti in mare, alle frontiere e sui luoghi di lavoro. Il nazionalismo unito al disprezzo per il diritto ha prodotto una politica antimigratoria che va di pari passo con un’idea eteronormativa di “famiglia”, benché i migranti apportino contributi molteplici e significativi alla società, e le famiglie assumano forme molto diverse, che includono quella della stessa Meloni. Il “copione” autoritario replicato in Europa e negli Stati Uniti è stato messo in scena da Viktor Orbán, un politico che non prova alcun imbarazzo per il proprio razzismo e disprezzo per i migranti. Le passioni di odio e paura spingono le persone a sostenere leader “forti”, sacrificando le cornici giuridiche dei loro stessi diritti democratici, e il disprezzo per la legge assume le forme di un approccio strumentale al diritto, rendendolo un mero strumento per raggiungere e consolidare il potere autoritario. Il quadro normativo smette così di fungere da limite all’azione, o da espressione di legame sociale e reciproco riconoscimento dei diritti, come idealmente dovrebbe essere.
DP: Di fronte al massacro di Gaza, alla guerra tra Russia e Ucraina, alla morte istituzionalizzata dalle politiche degli Stati – a cominciare dal respingimento dei migranti e dall’abbandono delle operazioni di soccorso in mare – ci stiamo addestrando a una forma selettiva di percezione della realtà: un guardare non vedendo, un nominare le cose riuscendo a non dar corpo al loro significato; un doppio registro, un accanimento nella dissociazione, nella ferrea volontà di non capire. Lei ha parlato di una capacità di «trasfigurazione fantastica» nella riduzione dell’altro – inerme – a nemico.
JB: Forse dovremmo riflettere sulla relazione tra dissociazione, autoinganno e alibi politico. “Dissociazione” è un termine psicologico che suggerisce che una parte del sé, o quantomeno un nucleo di credenze, viene tenuto separato da un altro nucleo di credenze, in particolare quelle che riflettono un sé idealizzato. Se la dissociazione sia conscia o inconscia può essere oggetto di discussione, ma in ogni caso consiste in due insiemi consapevoli di atteggiamenti o desideri tenuti separati, così da evitare ogni possibile collisione. Definire gli attacchi contro la Palestina un genocidio del popolo di Gaza è manifestamente corretto, dal momento che la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio stabilisce con chiarezza che colpire una forma di vita, compresa l’infrastruttura che rende possibile l’esistenza stessa di un determinato gruppo etnico – è genocidio, e questo è precisamente ciò che sta avvenendo. Per alcune persone, tuttavia, è possibile affermare la propria opposizione a ogni forma di genocidio e rifiutarsi di vedere che quello in atto a Gaza è un genocidio. Un atteggiamento che devia l’attenzione sia dalla realtà di ciò che è noto – le statistiche sulla denutrizione, gli attacchi mirati contro i civili, le scuole e gli ospedali presi deliberatamente a bersaglio, i bambini uccisi, i corpi smembrati sparpagliati lungo le strade – sia dall’obiettivo dichiarato da diversi leader dell’attuale governo israeliano di voler eliminare i palestinesi per “riprendere” le terre di quella che chiamano “Grande Israele”. Una retorica espansionista ed eliminazionista che agisce parallelamente alla dichiarazione che l’esercito israeliano compie tutto ciò per “autodifesa”. Chi crede a quest’ultima affermazione deve sospendere ciò che sa; deve praticare un’ostinata ignoranza e cecità morale per tenere separati i due nuclei di convinzioni. Forse si tratta di una forma di dissociazione che il complesso discorso del sionismo riproduce a livello di vita psichica, o forse è una forma di autoinganno che può essere affrontata e decostruita. In qualsiasi modo giudichiamo la sua origine e struttura, possiamo vedere che la capacità di mantenere intatta una credenza pienamente contraddetta da ciò che si sa è parte di quel che consente a Israele di continuare i suoi attacchi letali contro i palestinesi, anche mentre conduce una guerra contro l’Iran. In questo senso, tale capacità forma la condizione psicosociale di un alibi politico.
DP: Sempre più vengono ignorate, quando non irrise, le convenzioni sovranazionali e le istituzioni globali che, dopo la Seconda guerra mondiale e la Shoah, hanno cercato di mettere un freno allo strapotere degli Stati-nazione, proteggendo gli individui e, in particolar modo, i senza-terra, i respinti dalla protezione della cittadinanza, gli apolidi: quelli che i governi consideravano, secondo Hannah Arendt, alla stregua di «feccia della terra». Una volta che il processo di rimozione dei diritti che la nostra generazione ha dato per scontati dovesse giungere a compimento, l’individuo si troverebbe indifeso davanti al potere – alle sue forme «potenzialmente fatali», come lei ha affermato. Eppure, sembra che questa percezione si stia perdendo. Come è successo? Attraverso quali passaggi di soglia?
JB: Hannah Arendt pensava che il diritto internazionale avrebbe idealmente unito i popoli, anche se poi fu tra le prime a mostrare fino a che punto si fosse fallito nel realizzare quell’ideale. Il diritto di avere diritti non è un diritto individuale ma un modo di pensare tutti gli esseri umani in relazione l’uno con l’altro. Ogni organizzazione della vita politica dovrebbe rendere universale il diritto all’appartenenza; se fallisse, sarebbe ingiusta. Arendt concepiva il potere come possibilità creativa e collettiva di introdurre nel mondo una nuova comunità politica. Il potere non come appannaggio di un singolo individuo ma come azione di concerto. Il potere autoritario, dunque, non è potere; non nel senso in cui Arendt lo intendeva. Allo stesso modo, il potere non è violenza, perché la violenza distrugge, mentre il potere è un modo condiviso di portare qualcosa di nuovo nel mondo: è un’attività che genera la vita e afferma la vita. L’uso arendtiano delle parole contraddice il modo in cui siamo soliti pensare il potere, la vita, la violenza, la legge. Forse usava le parole in questo modo per indirizzare la nostra immaginazione verso una comunità politica in cui possa realizzarsi la vera uguaglianza e dove nessuno, e nessun gruppo, possa essere considerato «feccia della terra». Non è solo l’individuo a trovarsi impotente di fronte a una legge che non conosce limiti e non rispetta i vincoli costituzionali o internazionali, ma interi gruppi di persone che soffrono sia collettivamente che individualmente. Per comprendere come vengano differenziati da chi gode del diritto di avere diritti, dobbiamo comprendere il razzismo sistemico a livello globale.
DP:Gli Stati, e persino un’organizzazione nata per affermare la pace tra i suoi Stati membri, come l’Unione Europea, hanno finito per accettare nelle loro politiche una logica intrinsecamente genocidaria, pur continuando a negarla e ad ammantarla di eufemismi. Le morti dei migranti in mare, nei campi di detenzione e alle frontiere militarizzate; la sospensione di qualsiasi garanzia giuridica per chi è detenuto nei campi per il rimpatrio senza aver commesso alcun crimine; l’assenza di un’adeguata risposta sociale, sanitaria e lavorativa alle condizioni di marginalità o pericolo che producono quotidianamente morti sul lavoro e donne uccise per “femminicidio”: tutto questo – soprattutto con l’affermazione di esecutivi di destra, che minano le tutele sociali e concepiscono la sicurezza come controllo e repressione – non costituisce un “governo della morte”, nel senso che gli Stati prevedono, quando non legittimano, l’abbandono di chi si trova nei loro confini?
JB: Solo la cupezza del quadro che ha tracciato mi rende difficile ringraziarla per una descrizione così lucida. Ho l’impressione che la logica genocidaria da lei descritta sia un insieme di logiche interconnesse, così che possiamo interrogarci sugli attacchi alle persone trans e alle donne, possiamo interrogarci sugli attacchi contro i migranti, possiamo interrogarci sugli attacchi contro la Palestina come se fossero questioni separate, oppure come se facessero parte della stessa logica. In entrambi i casi, rischiamo di mancare la comprensione del fenomeno. Il problema non è solo che alcune persone rientrano in due o tre di queste categorie, ma che le pratiche di morte agiscono in modi differenti. C’è un “lasciar morire” i migranti, da parte dell’Unione Europea, che farebbe pensare a un semplice distogliere lo sguardo; ma perché, se quell’obiettivo non fosse deliberato e intenzionale, verrebbero criminalizzate, al contempo, le operazioni di soccorso? I politici plaudono se stessi per la propria capacità di prendere “decisioni difficili”, in un’evocazione dell’antica virtù virile di chi sa mantenersi freddo di fronte alla sofferenza; così facendo, veicolano la nozione che “lasciar morire” è esattamente ciò che fanno i politici freddi, realisti e virili; quelli che si adoperano per mantenere forme di nazionalismo europeo fondate sulla supremazia bianca.
DP: Nel corso di una recente conferenza, ha riportato un’affermazione preoccupante e indicativa fatta da Michael Knowles, autore di una serie di podcast per la società di produzione conservatrice «Daily Wire». Dopo aver affermato che il transgenderismo dovrebbe essere eliminato dalla vita pubblica per il bene della società, Knowles ha spiegato che il genocidio di persone transessuali non sarebbe configurabile come reato in quanto esse «non costituirebbero una categoria legittima». Il concetto di genocidio si riferisce alla genetica, ha spiegato, e il transgenderismo non ha nulla a che fare con la biologia. Quanto di questo determinismo biologico si sta espandendo come un veleno nelle nostre società?
JB: È difficile mantenere la calma di fronte ad affermazioni simili, cariche di odio e ignoranza, ma limitiamoci a un paio di considerazioni. “Genocidio” non ha a che fare con “genetica”. È un termine coniato da Raphael Lemkin nel 1944 che deriva dal greco genos, che significa “razza”, “tribù”, “popolo d’origine”, e dal latino -cidio, che significa “uccisione”. Lemkin non intendeva che i gruppi soggetti a genocidio avessero un’origine biologica o genetica comune, ma che condividessero una forma di vita come «gruppo nazionale». Nella sua visione, il genocidio è un crimine internazionale che mira «alla distruzione dei fondamenti essenziali della vita di gruppi nazionali, con l’obiettivo di annientarli». Knowles parte dall’assunto che non si possa uccidere un gruppo che, di fatto, non esiste. Poiché contesta l’esistenza delle persone transgender, pensa che non si possa affermare che queste vengano uccise in quanto gruppo. Eppure, il suo rifiuto di riconoscere l’esistenza delle persone transgender è parte integrante della logica genocidaria; permettere che un popolo venga eliminato perché non è mai davvero esistito.
Un ragionamento apparentemente connesso a quelle forme di razzismo anti-neri che pretendono che l’eliminazione delle persone nere non costituisca una perdita, per il fatto che non sono considerate come vite umane. Se quelle persone non sono umane e non rappresentano una forma di vita umana, non si perde alcun essere umano. Ecco un alibi razzista per una politica eliminazionista.
DP:Il pericolo di una sostituzione di popolazione su base demografica è argomento dei fascismi: di Orbán in Ungheria, del governo di Israele, degli Stati Uniti di Trump. Lo scorso 17 maggio, vicino a Milano, si è data appuntamento quella che aspira ad essere la futura classe dirigente dell’estrema destra mondiale, nel cosiddetto Remigration Summit, un neologismo per “deportazione di massa”. Eppure lo spettro della sostituzione etnica non affonda più le radici nella sola cultura di destra. Lei lo ha evocato nei confronti di una parte del femminismo, secondo cui i trans ruberebbero alle donne l’identità femminile. Che partita si sta giocando sull’identità, dopo che questo concetto così pesantemente connesso ai nazionalismi e ai fascismi pareva essere stato depotenziato?
JB: Forse perché oggi le convinzioni fasciste assumono nuove forme, non è facile riconoscerle come fasciste. Il fallimento nel riconoscere la forma attuale del fascismo si basa sull’idea che il fascismo appartenga al passato e che, per definizione, ciò che accade oggi non può essere fascismo. È un comodo alibi per quanti stanno diventando fascisti senza nemmeno doverlo dichiarare. Il ricorso israeliano all’“autodifesa” si può allargare all’infinito: può coprire e giustificare qualsiasi forma di assassinio. In nome dell’autodifesa, possono prendere piede politiche espansioniste e genocide. Allo stesso modo, l’idea che l’Europa sia invasa dai migranti o dall’Islam è una fantasia, o una convinzione, che per alcuni giustifica gli attacchi contro queste categorie di persone. Accade così che il quadro morale e politico che consentirebbe di considerare inaccettabili tali attacchi venga annientato. Ancora una volta, è all’opera l’idea di autodifesa. Ma possiamo chiederci, con la filosofa francese Elsa Dorlin, chi possieda quel genere di “sé” che può rivendicare la “difesa del sé”, ovvero l’autodifesa. Tutti gli altri non hanno forse un sé, una vita, che abbia lo stesso valore? L’idea di uguaglianza sembrerebbe costituire un attacco diretto al nazionalismo. Dobbiamo chiederci fino a che punto ogni forma di internazionalismo sia davvero riuscita a superare il nazionalismo e la logica della territorialità. In questo senso. ci stiamo ancora interrogando, con Hannah Arendt, su un internazionalismo capace di liberarsi dal nazionalismo e dal razzismo.
DP: Lei ha detto che dovremmo avere un’immagine dell’umanità e della convivenza che appaia più desiderabile di qualsiasi illusione fascista. Come far apparire uguaglianza, libertà e giustizia non solo desiderabili ma anche solo immaginabili, in un mondo che pare aver smarrito il desiderio di cultura e bellezza, reso introverso o rabbioso dalla paura e da quella che sembra una non rimediabile perdita di futuro?
JB: Ho letto un articolo in cui si sosteneva che la sinistra dovrebbe fare appello ai “risentimenti” della classe lavoratrice. Mi sono subito opposta non all’idea che ci si debba rivolgere alla classe lavoratrice, ma all’idea che dovremmo fare appello ai suoi risentimenti anziché alle sue aspirazioni. In effetti, il “noi” che dovrebbe rivolgersi ai sogni, ai desideri e alle aspirazioni della classe lavoratrice deve essere costituito da persone della classe lavoratrice. Dobbiamo capire che femministe, persone queer, persone non bianche e migranti fanno anch’esse parte della classe lavoratrice contemporanea; non sono un problema o un ostacolo da superare per tornare al concetto di classe. Non torneremo a una versione passata, ma troveremo sicuramente ispirazione in figure come Rosa Luxemburg ed Emma Goldman, Antonio Gramsci e i teorici contemporanei dell’egemonia. Se Trump, Milei e Meloni sono riusciti a parlare ai “risentimenti” della classe lavoratrice convinta che la propria condizione economica sia colpa dei migranti e dell’ideologia gender, allora il nostro compito è mostrare come capitalismo e autoritarismo oggi agiscano insieme, e ascoltare non solo la loro rabbia, ma anche il desiderio. Una vera trasformazione è capace di liberare il desiderio dal risentimento, e forse proprio questo sarà il discorso collettivo che ci attende in un mondo attualmente orientato verso la distruzione.
Una versione breve di questo dialogo – che fa parte dei Dialoghi sull’autoritarismo di Daniela Padoan con interlocutori italiani e internazionali – è comparsa originariamente sulle pagine di «Domani» dell’11 luglio 2025 e sul nostro sito, qui. Questa versione integrale si trova anche su Il Diario di Winston, uno spazio di dialogo promosso da Castelvecchi editore che con Libertà e Giustizia ha dato vita all’Osservatorio sull’autoritarismo.


 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
     
         Daniela Padoan
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