L’Unione Europea e iI sogno distopico dei burocrati neoliberisti

18 Luglio 2025

Emilio De Capitani Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

Open days at the European Parliament in Strasbourg - Mathieu Cugnot © European Union 2024 - Source: EP

Il bilancio settennale di von der Leyen spinge sulla difesa militare e taglia su agricoltura e coesione, mentre si assottiglia il ruolo del Parlamento europeo sempre meno incisivo nelle fasi di decisione e di controllo. Inoltre, le decisioni prese oggi peseranno sulla prossima legislatura e non tengono conto dei possibili nuovi Stati membri.

Il 16 luglio la Commissione europea (o più precisamente Ursula von der Leyen, dato che non ha praticamente consultato i suoi colleghi commissari) ha presentato un progetto di bilancio pluriennale dell’Unione europea per il periodo 2028-2034. Questo dovrà ora essere negoziato con gli Stati membri in seno al Consiglio europeo e approvato dal Parlamento europeo ai sensi dell’art. 312 del Trattato sul funzionamento dell’Unione. Il dibattito vero inizierà a settembre a Strasburgo quando UVDL presenterà il suo discorso annuale sullo Stato dell’Unione e continuerà nei due anni seguenti fino all’estate del 2027.

I documenti sono numerosi e meritano una attenta lettura nelle prossime settimane ma fin da ora si possono fare un paio di osservazioni nel merito e sul piano istituzionale.

Nel merito, come ha osservato l’economista Guillaume Duval Perso, l’aumento dichiarato del bilancio europeo dall’1,1% all’1,26% del PIL dell’Unione è in realtà un trompe l’oeil perché include il rimborso del prestito di 750 miliardi di euro contratto per Next Generation EU nel 2020. La spesa reale per le politiche dell’Unione non aumenta. E in pratica alla fine probabilmente diminuirà perché i negoziati con gli Stati membri finiscono sempre con un risultato inferiore rispetto alla proposta iniziale della Commissione. 

Il cambiamento principale consiste nel riunire la spesa tradizionalmente destinata alla coesione (cioè i fondi trasferiti alle regioni meno ricche dell’Unione) e quelli della politica agricola comune per smettere di farne vere e proprie politiche comuni europee e trasformarli in fondi che saranno oggetto di negoziazione di piani nazionali tra la Commissione e gli Stati membri, condizionati dall’attuazione delle famose riforme strutturali. Già vien da pensare ai mantra ricorrenti di Bruxelles: riduzione della spesa pubblica, innalzamento dell’età pensionabile, flessibilizzazione del mercato del lavoro….

Il sogno distopico dei burocrati neoliberisti e di politici come l’ineffabile Mark Rutte (l’ex presidente dei Paesi Bassi ora alla Nato) o lo stesso neo-Cancelliere Friedrich Merz che ha già messo le mani avanti e ha escluso aumenti di spese. 

Non sono idee nuove: dai tempi della crisi Greca questa politica era già stata tentata con il patto di stabilità, ma in assenza di una reale leva finanziaria la pressione si era rivelata largamente inefficace. Questa volta, con una quota media dello 0,5% del PIL per ogni Stato membro (e molto di più per i più poveri), la questione assume tutt’altra dimensione. Il sogno di svuotare di contenuto le scelte politiche democratiche effettuate all’interno degli Stati membri dai loro parlamenti per sostituirle con una dittatura neoliberista tecnocratica guidata dalla Commissione europea a Bruxelles può finalmente diventare realtà. Confermare un simile approccio che va all’opposto delle scelte coraggiose suggerite da Draghi e Letta sarebbe un errore diabolico e aggraverebbe ulteriormente la sfiducia nei confronti dell’Unione. 

Se ne renderanno conto le nostre forze politiche ? C’è da dubitarne e questo fa emergere la grande aporia istituzionale di tutta questa operazione.

Sul piano istituzionale quello che salta agli occhi è il fatto che il nuovo piano multiannuale coprirà anche tutta la prossima legislatura (2029-2034) con buona pace per il Parlamento europeo (PE) che uscirà dalle elezioni del 2029 e che rischia quindi di essere anche meno rilevante di quello attuale. Ma il pericolo dell’intera operazione è il fatto che la Commissione dia per scontate anche le scelte legislative che il piano dovrebbe coprire dal punto di vista finanziario. Anteponendo le scelte finanziarie a quelle di fondo, la Commissione sta già distogliendo l’attenzione delle forze politiche all’interno del PE, che si affrettano a contare i soldi invece di concentrarsi sulle scelte politiche di cui il piano pluriennale dovrebbe essere il semplice riflesso finanziario.
Poiché non è ovviamente possibile separare la finanza dalle scelte legislative, dovrebbe essere nell’interesse del Parlamento europeo cambiare l’ordine dei fattori e porre la legislazione al centro del processo politico dell’UE invece di farsi  condizionare dagli Stati membri riuniti in Consiglio e dalla Commissione. Purtroppo per il PE la funzione (e la responsabilità) legislativa sembrano essere considerate come la semplice messa in musica di scelte strategiche da cui il Parlamento europeo è di fatto (e di diritto, vedi la difesa…) sempre più tenuto all’oscuro.  

Se a ciò si aggiunge il fatto che il PE continua ad essere escluso anche dalla verifica dell’impatto sul territorio e sulla società civile delle norme di cui resta corresponsabile con il Consiglio dinanzi alla Corte ci si può chiedere se i nostri rappresentanti non stiano diventando le facili vittime del gioco delle tre carte della Commissione e del Consiglio. Basti pensare alle politiche in materia di migrazione e asilo, per le quali la strategia europea sarà definita entro la fine del 2025, ma senza un ruolo significativo da parte del PE per quanto riguarda gli obiettivi da perseguire e i relativi finanziamenti (lo stesso discorso vale per Schengen, l’ambiente, la politica sociale, lo sviluppo, la ricerca..). Purtroppo, il partito di maggioranza relativa, PPE e il suo Presidente Manfred Weber hanno deciso da tempo di favorire più gli interessi dei 23 Governi in cui sono presenti trasformando così l’istituzione che era stata al centro dell’innovazione istituzionale tra il 1994 e il 2009 in una semplice cheerleader di scelte prese altrove (e complimenti per le altre forze politiche che nella scorsa legislatura e in questa stanno permettendo questo deriva).

Last but not least: se il Piano pluriennale copre fino al 2034, non dovrebbe anche prevedere il possibile impatto dell’allargamento ai paesi a cui è stata promessa l’adesione entro il 2030 e cioè Albania, Montenegro e Ucraina?

Certo il piano multiannuale non è negoziato e approvato come il bilancio annuale in codecisione e il PE potrà solo prendere o lasciare quanto gli Stati membri avranno deciso. Come incidere quindi sul testo finale? Non è una situazione nuova e in simili frangenti nelle scorse legislature il PE avvertiva semplicemente Commissione e Consiglio che non avrebbe approvato il provvedimento sottoposto ad approvazione o un determinato accordo internazionale che alla condizione che questi soddisfassero le proprie “linee rosse” tra le quali, personalmente, metterei per il rispetto di un minimo di democrazia anche il limite della validità sino al 2032. 

La prima informale dichiarazione dei Presidenti dei Gruppi politici della cd “maggioranza Ursula” (PPE, SD, RENEW e Verdi) sembra muoversi, seppur  timidamente, in questa direzione. Verrà confermata a Settembre in plenaria? Speriamo e continuiamo a seguire da vicino.

Direttore Esecutivo del Fundamental Rights European Experts Group (FREE Group). Docente a contratto presso la Scuola Superiore S.Anna in Pisa. Già Segretario (1998-2011) della Commissione Libertà Civili (LIBE) del Parlamento Europeo.

Nel corso della sua attività professionale responsabile per le relazioni istituzionali e il coordinamento legislativo presso il Parlamento Europeo (1985-1998) e la Giunta Regionale della Lombardia (1971-1985).

Autore e co-autore di saggi e pubblicazioni in campo istituzionale e sulle politiche legate allo spazio europeo di Libertà sicurezza e giustizia.

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