Per battere l’autoritarismo, bisogna ascoltare la rabbia ma anche il desiderio

11 Luglio 2025

Daniela Padoan Presidente Libertà e Giustizia, Scrittrice

Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

Decimo dialogo sull’autoritarismo: su Domani, la presidente di Libertà e Giustizia, Daniela Padoan, conversa con la filosofa Judith Butler che ha dedicato saggi e articoli a identità e linguaggio.

Daniela Padoan: Quali pericoli vede nella situazione italiana e nel progressivo avanzare delle destre nella conquista del potere politico negli Stati Uniti, in Argentina e in diversi paesi europei?

Judith Butler: Ho trovato inquietante l’ascesa di Giorgia Meloni, sia per la strategia comunicativa di conquista del consenso sui temi peculiari della destra che ha sostituito il discorso incendiario al giudizio informato, sia per il modo in cui principi costituzionali e diritti umani vengono via via intesi come irrilevanti o facilmente eludibili. Le persone i cui diritti fondamentali sono colpiti dalle sue politiche includono genitori appartenenti alle comunità trans, gay e lesbica; donne che chiedono di accedere alle tecnologie riproduttive; migranti in mare, alle frontiere e sui luoghi di lavoro. Il nazionalismo unito al disprezzo per il diritto ha prodotto una politica antimigratoria che va di pari passo con un’idea eteronormativa di “famiglia”, benché i migranti apportino contributi molteplici e significativi alla società, e le famiglie assumano forme molto diverse, che includono quella della stessa Meloni. Le passioni di odio e paura spingono le persone a sostenere leader “forti”, sacrificando le cornici giuridiche dei loro stessi diritti democratici, e il disprezzo per la legge assume le forme di un approccio strumentale al diritto, rendendolo un mero strumento per raggiungere e consolidare il potere autoritario. 

DP: Di fronte al massacro di Gaza, alla guerra tra Russia e Ucraina, alla morte istituzionalizzata dalle politiche degli Stati – a cominciare dal respingimento dei migranti e dall’abbandono delle operazioni di soccorso in mare – ci stiamo addestrando a una forma selettiva di percezione della realtà: un “guardare non vedendo”, un nominare le cose riuscendo a non dar corpo al loro significato; un doppio registro, un accanimento nella dissociazione, nella ferrea volontà di non capire. Lei ha parlato di una capacità di «trasfigurazione fantastica» nella riduzione dell’altro – inerme – a nemico.

JB: Forse dovremmo riflettere sulla relazione tra dissociazione, autoinganno e alibi politico. “Dissociazione” è un termine psicologico che suggerisce che un nucleo di credenze viene tenuto separato da un altro nucleo di credenze, soprattutto quelle che riflettono un sé idealizzato, così da evitare ogni possibile collisione. Definire gli attacchi contro la Palestina un genocidio del popolo di Gaza è manifestamente corretto, dal momento che la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio stabilisce che colpire una forma di vita, compresa l’infrastruttura che rende possibile l’esistenza stessa di un determinato gruppo etnico – è genocidio, e questo è precisamente ciò che sta avvenendo. Per alcune persone, tuttavia, è possibile affermare la propria opposizione a ogni forma di genocidio e rifiutarsi di vedere che quello in atto a Gaza è un genocidio. Un atteggiamento che devia l’attenzione sia dalla realtà di ciò che è noto – le statistiche sulla denutrizione, gli attacchi mirati contro i civili, le scuole e gli ospedali presi deliberatamente a bersaglio, i bambini uccisi, i corpi smembrati sparpagliati lungo le strade – sia dall’obiettivo dichiarato da diversi leader dell’attuale governo israeliano di voler eliminare i palestinesi per “riprendere” le terre di quella che chiamano “Grande Israele”. Una retorica espansionista ed eliminazionista che agisce parallelamente alla dichiarazione che l’esercito israeliano compie tutto ciò per “autodifesa”. Chi crede a quest’ultima affermazione deve sospendere ciò che sa; deve praticare un’ostinata ignoranza e cecità morale per tenere separati i due nuclei di convinzioni. Questa capacità è parte di ciò che consente a Israele di continuare i suoi attacchi letali contro i palestinesi, anche mentre conduce una guerra contro l’Iran. 

DP: Gli Stati, e persino un’organizzazione nata per affermare la pace tra i suoi Stati membri, come l’Unione Europea, hanno finito per accettare nelle loro politiche una logica intrinsecamente genocidaria, pur continuando a negarla e ad ammantarla di eufemismi. Le morti dei migranti in mare, nei campi di detenzione e alle frontiere militarizzate; la sospensione di qualsiasi garanzia giuridica per chi è detenuto nei campi per il rimpatrio senza aver commesso alcun crimine; l’assenza di un’adeguata risposta sociale, sanitaria e lavorativa alle condizioni di marginalità o pericolo che producono quotidianamente morti sul lavoro e donne uccise per “femminicidio”: tutto questo – soprattutto con l’affermazione di esecutivi che minano le tutele sociali e concepiscono la sicurezza come controllo e repressione – non costituisce un “governo della morte”, nel senso che gli Stati prevedono, quando non legittimano, l’abbandono di chi si trova nei loro confini? 

JB: Solo la cupezza del quadro che tracciato mi rende difficile ringraziarla per una descrizione così lucida. Ho l’impressione che la logica genocidaria da lei descritta sia un insieme di logiche interconnesse, così che possiamo interrogarci sugli attacchi alle persone trans e alle donne, possiamo interrogarci sugli attacchi contro i migranti, possiamo interrogarci sugli attacchi contro la Palestina come se fossero questioni separate, oppure come se facessero parte della stessa logica. In entrambi i casi, rischiamo di mancare la comprensione del fenomeno. Il problema non è solo che alcune persone rientrano in due o tre di queste categorie, ma che le pratiche di morte agiscono in modi differenti. C’è un “lasciar morire” i migranti, da parte dell’Unione Europea, che farebbe pensare a un semplice distogliere lo sguardo; ma perché, se quell’obiettivo non fosse deliberato e intenzionale, verrebbero criminalizzate, al contempo, le operazioni di soccorso? I politici plaudono se stessi per la propria capacità di prendere “decisioni difficili”, in un’evocazione dell’antica virtù virile di chi sa mantenersi freddo di fronte alla sofferenza; così facendo, veicolano la nozione che “lasciar morire” è esattamente ciò che fanno i politici freddi, realisti e virili; quelli che si adoperano per mantenere forme di nazionalismo europeo fondate sulla supremazia bianca.

DP: Lei ha detto che dovremmo avere un’immagine dell’umanità e della convivenza che appaia più desiderabile di qualsiasi illusione fascista. Come far apparire uguaglianza, libertà e giustizia non solo desiderabili ma anche solo immaginabili, in un mondo che pare aver smarrito il desiderio di cultura e bellezza, reso introverso o rabbioso dalla paura e da quella che sembra una non rimediabile perdita di futuro?

JB: Ho letto un articolo in cui si sosteneva che la sinistra dovrebbe fare appello ai “risentimenti” della classe lavoratrice e mi sono subito opposta non all’idea che ci si debba rivolgere alla classe lavoratrice, ma all’idea che dovremmo fare appello ai suoi risentimenti anziché alle sue aspirazioni. Dobbiamo capire che femministe, persone queer, persone non bianche e migranti fanno anch’esse parte della classe lavoratrice contemporanea; non sono un ostacolo da superare per tornare al concetto di classe. Possiamo trovare ispirazione in Rosa Luxemburg ed Emma Goldman, in Gramsci e nei teorici contemporanei dell’egemonia. Se Trump, Milei e Meloni sono riusciti a parlare ai “risentimenti” della classe lavoratrice convinta che la propria condizione economica sia colpa dei migranti e dell’ideologia gender, il nostro compito è mostrare come capitalismo e autoritarismo agiscano insieme, e ascoltare non solo la rabbia, ma anche il desiderio. Una vera trasformazione è capace di liberare il desiderio dal risentimento, e forse proprio questo sarà il discorso collettivo che ci attende in un mondo attualmente orientato verso la distruzione.

Scrittrice, saggista e Presidente di Libertà e Giustizia. Si occupa da anni di razzismo e dei totalitarismi del Novecento, con particolare attenzione alla testimonianza delle dittature e alle pratiche di resistenza femminile ai regimi.

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