1. L’ultimo ‘pacchetto sicurezza’ (d.l. 11 aprile 2025, n. 48, convertito nella l. 9 giugno 2025, n. 80) ha contenuti così vasti e disparati da non consentire un approccio analitico nei tempi della relazione a un convegno. In un’altra occasione ho preso in esame alcuni tra quei contenuti.Oggi mi concentro invece sullo strumento adottato per il varo della nuova normativa: lo strumento del decreto-legge.
Pongo due distinti quesiti. Un primo quesito di portata generale: se il decreto-legge abbia diritto di cittadinanza tra le fonti di norme penali, e in particolare tra le fonti di norme che introducono nuovi reati o inasprimenti del trattamento sanzionatorio di un reato già presente nell’ordinamento.
Un secondo quesito più specifico, mirato sul d.l. n. 48/2025: se nel caso di specie potessero ravvisarsi gli estremi della straordinaria necessità ed urgenza di cui all’art. 77 co. 2 Cost.
Un cenno alla prassi istituzionale. Allo strumento del decreto-legge si è fatto ampiamente ricorso anche in passato in materia di sicurezza pubblica.
Lo hanno fatto Governi dai colori diversi. Rammento: i ‘decreti Maroni’ del 2008 e del 2009, emanati da un Governo Berlusconi; il ‘decreto Minniti’ del 2017, emanato dal Governo Gentiloni; i ‘decreti Salvini’ del 2018 e del 2019, emanati dal Governo Conte I; il ‘decreto Lamorgese’ del 2020, emanato dal Governo Conte 2. Governi di centro-destra, Governi di centro-sinistra e un Governo… giallo-verde.
Il decreto-legge, dunque, non solo ha ampio spazio nella prassi, ma anzi è costantemente assunto quale strumento principe per la tutela della sicurezza collettiva.
Quale l’orientamento della Corte costituzionale in relazione al rapporto tra decreto-legge e diritto penale?
La Corte si è costantemente attenuta ad un’interpretazione della formula ‘legge’ – ai fini della riserva di legge in materia penale – quale legge in senso materiale, inclusiva degli atti aventi forza di legge (artt. 13 co. 2, 25 co. 2 e 77 co. 2 Cost.): non ha mai dichiarato illegittima una disposizione penale in quanto – solo in quanto – introdotta con decreto-legge. La Corte ha anzi affermato più volte che “la parificazione alle leggi formali degli atti ‘aventi forza di legge’ (tra i quali certamente rientra il decreto-legge) abilita tali atti a incidere validamente, al pari delle leggi, nelle materie a queste riservate” (sent. n. 184 del 1974): una scelta interpretativa ribadita dalla Corte, anni dopo, ad es., nella sent. n. 330 del 1996 (sent. 11 luglio 1996, n. 330).
La Corte costituzionale ha apposto però importanti limiti alla decretazione d’urgenza. Ne ricordo alcuni.
Di particolare rilievo la sent. n. 360 del 1996, secondo la quale la riproposizione dei decreti-legge non convertiti “viene… a incidere negli equilibri istituzionali, alterando i caratteri della stessa forma di governo e l’attribuzione della funzione legislativa ordinaria al Parlamento (art. 70 Cost.)”. La Corte statuisce pertanto che devono considerarsi costituzionalmente illegittimi i decreti-legge reiterati che riproducono sostanzialmente il contenuto di precedenti decreti non convertiti.
Nella sent. n. 32 del 2014 la Corte costituzionale enuncia almeno due principi di portata generale in ordine all’ammissibilità della decretazione d’urgenza.
Il primo principio. In considerazione della procedura semplificata e dei tempi accelerati imposti dall’art. 77 commi 2 e 3 Cost. – il decreto-legge deve essere convertito entro 60 gg. dalla pubblicazione –, riforme di grande momento – che profondamente innovino, cioè, rami importanti dell’ordinamento – non possono essere realizzate attraverso un decreto-legge.
Il secondo principio. Tra le disposizioni contenute nel decreto-legge e quelle introdotte con la legge di conversione, oggetto della questione di legittimità costituzionale, deve esistere un nesso di omogeneità contenutistica: come ha scritto Vittorio Manes, in veste di interprete della Corte costituzionale, ex art. 77 co. 2 Cost. la riforma non può realizzarsi attraverso norme ‘intruse’ con la legge di conversione in un contesto normativo del tutto inconferente (nel caso di specie, si trattava di rilevatissime modifiche della disciplina penale degli stupefacenti inserite nel contesto di misure finanziarie relative alle Olimpiadi invernali di Torino del 2006).
Nella sent. 146 del 2024 la Corte costituzionale evidenzia come il ruolo della decretazione d’urgenza abbia a che fare con uno dei principi-cardine dello Stato di diritto: la separazione dei poteri. La Corte ammonisce che non è dato di vanificare la funzione legislativa del Parlamento. “La brevità del termine, assegnato al Parlamento per decidere se approvare la legge di conversione e con quali emendamenti” “esige, affinché sia rispettata la funzione legislativa del Parlamento, che l’oggetto da disciplinare sia circoscritto”: il decreto-legge non deve tramutarsi in un “improprio disegno di legge a urgenza garantita”.
In dottrina è controverso se, alla luce dell’art. 1 c.p. e dell’art. 25 co. 2 Cost., la produzione di norme penali debba intendersi riservata alla legge formale o estesa, invece, anche agli atti aventi forza di legge di cui all’art. 77 Cost.
Giorgio Marinucci ed io abbiamo affrontato questo problema nel “Corso di diritto penale”, un’opera alla quale ci siamo dedicati nell’ultima decade degli anni novanta (la terza, e ultima edizione del “Corso” ha visto la luce nel 2001). Condividendo appieno le considerazioni svolte da un’autorevole dottrina costituzionalistica in merito al fondamento politico della riserva di legge in materia penale, così scrivevamo: “Riservare il monopolio nella produzione delle norme penali alla legge formale, emanata da un Parlamento eletto a suffragio universale, le cui scelte sono dunque il risultato della dialettica tra maggioranza e minoranza, significa garantire a tutti i cittadini – anche alle minoranze – che scelte sul se, che cosa e come punire verranno compiute dal potere dello Stato che è in grado di esprimere nella forma più ampia possibile le loro valutazioni su quel che merita e ha bisogno della più dura tra le reazioni statuali”: concludevamo dunque che “la riserva di legge in materia penale va intesa come riserva di legge formale”, con estromissione dal sistema delle fonti del diritto penale di tutti gli atti promananti dall’esecutivo, anche di quelli che hanno ‘forza di legge’.
Non ho cambiato idea. Marinucci ed io abbiamo ribadito quella scelta interpretativa nel “Manuale di diritto penale”, che si avvale da tempo, quale nuovo coautore, di Gian Luigi Gatta e che sta per vedere la luce nella 14° edizione.
Contro l’estromissione del decreto-legge dalle fonti di norme penali non vale, a nostro avviso, obiettare che in caso di conversione i contenuti del decreto-legge vengono incorporati in una legge formale, mentre in caso di mancata conversione gli effetti del decreto-legge risulterebbero integralmente travolti sin dall’inizio, secondo la previsione dell’art. 77 Cost.
A ben vedere, infatti, sulla legge di conversione il Governo pone spesso la questione di fiducia (come nel caso del decreto-legge sicurezza del 2025): la legge viene dunque adottata senza un serio vaglio da parte del Parlamento. In caso invece di mancata conversione, un decreto-legge nel quale siano previste nuove incriminazioni o inasprimenti di pena nel periodo della sua temporanea vigenza può produrre effetti sulla libertà personale, vuoi nella forma di misure cautelari, vuoi nella forma di una pena conseguente a una condanna definitiva, eventualmente pronunciata all’esito di un giudizio direttissimo ex art. 449 c.p.p.: tali effetti saranno irreversibili.
Mi limito qui a sviluppare l’argomento centrale contro il decreto-legge in materia penale, che risiede, ribadisco, nella ratio di garanzia democratica della riserva di legge ex art. 25 co. 2 Cost. Accenno soltanto all’esigenza di conoscibilità della legge penale ex art. 27 co. 1 Cost., contraddetta – come ha sottolineato Gatta – dalla mancanza di un periodo di vacatio legis: una mancanza che compromette anche la funzione generalpreventiva di una norma incriminatrice introdotta per decreto-legge.
Quando Marinucci ed io affrontavamo il tema per la prima volta, nella seconda edizione del “Corso” (1999), la tesi da noi accolta trovava consensi davvero isolati: tra i primi penalisti a pronunciarsi in questo senso, Giuseppe Carboni, in una monografia del 1970 intitolata “L’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”, e Franco Bricola, nella splendida voce di enciclopedia “Teoria generale del reato”, del 1973.
Venendo ad anni più recenti, abbozzo una sommaria panoramica della manualistica di diritto penale.
La tesi favorevole al decreto-legge quale fonte di norme penali è tuttora maggioritaria: vi aderiscono, tra gli altri, Carlo Fiore e Stefano Fiore, Marcello Gallo, Ferrando Mantovani e Giovanni Flora, Tullio Padovani, Antonio Pagliaro, Carlo Enrico Paliero, Domenico Pulitanò, Bartolomeo Romano e Mario Romano.
Per una lettura della riserva di legge ex art. 25 co. 2 Cost. che tagli fuori il decreto-legge dal sistema delle fonti di norme penali si pronuncia un’altra parte della dottrina penalistica, tuttora minoritaria, ma oggi più consistente che in passato: tra gli Autori così orientati, Giovanni Fiandaca e Enzo Musco, Giancarlo De Vero, Alberto Cadoppi e Paolo Veneziani, Sergio Vinciguerra.
Anche in dottrina, in definitiva, come nella giurisprudenza della Corte costituzionale, qualcosa si muove: sembrano lentamente diminuire i consensi ad un’indiscriminata apertura al decreto-legge quale fonte di norme penali.
Vengo al secondo quesito. Ammettiamo per un attimo che, secondo l’orientamento dominante nella prassi istituzionale e prevalente in dottrina, non esista una preclusione assoluta all’ingresso del decreto-legge fra le fonti del diritto penale. Questo l’interrogativo residuo: potevano ravvisarsi nel caso di specie – in relazione alle svariate materie interessate dal ‘pacchetto sicurezza’ 2025 – gli estremi della straordinaria necessità ed urgenza richiesti dall’art. 77 Cost.?
Il decreto-legge 48/2025 ha un oggetto particolarmente ampio: coinvolge le materie più disparate. Lo si intravvede già dal titolo del decreto, che, riproducendo il titolo dell’originario disegno di legge, fa riferimento alla sicurezza pubblica, alla tutela del personale in servizio, all’ordinamento penitenziario e all’usura. Glauco Giostra ha parlato di un “insensato assemblaggio di temi, rationes e destinatari, così eterogenei da risultare espressione più di un fenomeno di incontinenza securitaria che di un organico disegno di riforma”.
Sottolineo inoltre che il recente decreto-legge sicurezza recepisce pressoché integralmente i contenuti dell’originario disegno di legge, un disegno di legge presentato oltre un anno prima, al cui esame erano state dedicate un centinaio di sedute tra Camera e Senato e che aveva avuto l’approvazione della Camera. A fronte dei ritardi che l’approvazione definitiva del disegno di legge avrebbe incontrato nell’iter parlamentare, il Governo ha espropriato il Parlamento della sua funzione primaria: in nome dell’istanza di tempi certi nell’espletamento del procedimento legislativo, il Governo ha “messo in sicurezza” – così si è espressa Irene Pellizzone – un provvedimento che riguardava un tema prioritario per la sua agenda politica. Un modus operandi che, come ha detto la Corte costituzionale a proposito di altro decreto-legge nella sentenza n. 146 del 2024 alla quale ho fatto riferimento in precedenza, “travalica i limiti imposti alla funzione normativa del Governo e sacrifica in modo costituzionalmente intollerabile il ruolo attribuito al Parlamento nel procedimento legislativo”.
La Corte costituzionale ha affermato più volte che il suo sindacato sulla legittimità del ricorso al decreto-legge deve limitarsi alla “evidente mancanza” dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza di cui all’art. 77 co. 2 Cost. (cfr., ad es., sent. n. 83 del 2010): di tale “evidente mancanza” il d.l. n. 48/2025 fornisce un esempio emblematico. Parrebbe un caso di scuola, costruito a tavolino!
Rilevo, con Francesco Palazzo, la presenza nel decreto-legge sicurezza 2025 di una disposizione che addirittura sconfessa per tabulas il requisito della necessità ed urgenza: l’art. 37, che delega il Governo ad apportare entro un anno alcune modifiche al regolamento penitenziario di cui al d.P.R. n. 230/2000 in tema di lavoro di detenuti e internati. Fatico a credere che possano considerarsi urgenti modifiche che, agli occhi degli stessi estensori del decreto, possono attendere un anno!
Mauro Palma ha ricordato, dalle pagine di un quotidiano, le perplessità manifestate da Costantino Mortati nel corso della discussione che avrebbe portato, in Assemblea costituente, alla formulazione dell’art. 77 Cost.: l’illustre giurista temeva che il Governo potesse abusare del decreto-legge per una più rapida realizzazione dei fini della sua politica. Rammenta ancora Palma come un altro padre costituente, Piero Calamandrei, si pronunciasse invece a favore di uno spiraglio per la decretazione d’urgenza: al fine, peraltro, di fronteggiare “terremoti o situazioni simili”.
Se Mortati e Calamandrei sedessero oggi alla Corte costituzionale, certamente non esiterebbero a ravvisare nel decreto-legge sicurezza 2025 un contrasto con l’art. 77 Cost.