La sicurezza come limite ai diritti

20 Giugno 2025

Marilisa D'amico Professoressa Ordinaria di Diritto costituzionale

Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

Foto di Silvia Calderone © Mostra collettiva "Tanto a me non capita" di Libere Sinergie

Un testo con evidenti violazioni costituzionali, quello della Legge sulla sicurezza, in un contesto internazionale che vede emergere inedite forme di autoritarismo. Nella prima giornata di studi dell’Osservatorio autoritarismo, Marilisa D’Amico richiama Hannah Arendt e la necessità di comprendere a fondo, benché senza giustificazioni.

In linea con il pensiero giuridico più garantista, si può affermare che la sicurezza non è un diritto fondamentale in sé, ma solo un bene strumentale, che serve a tutelare il godimento effettivo di altri diritti (es. libertà personali, proprietà, ordine pubblico). 

Tuttavia, nel Decreto Sicurezza n. 48/2025, questo concetto viene rovesciato ideologicamente: la “sicurezza” assume un valore prioritario e autoassolutorio, legittimando un indiscriminato ricorso alla sanzione penale, spesso consistente limitazioni gravi a libertà fondamentali in modo preventivo, generalizzato e sproporzionato. Si assiste quindi alla costruzione di una gerarchia autoritaria dei diritti, dove sicurezza e ordine pubblico prevalgono su libertà individuali, sociali e politiche, anche in assenza di effettive minacce o violenza: la tutela penale, che, laddove sussista la responsabilità penale, impone il sacrificio della libertà personale, viene dunque talmente anticipata, che sembra riguardare la sicurezza in sé e non la sicurezza come strumento di tutela di diritti inviolabili.

Il decreto-legge sicurezza n. 48/2025 presenta profili evidenti di incostituzionalità, sia formali (assenza di urgenza, eterogeneità, abuso della decretazione d’urgenza) sia sostanziali (misure punitive e discriminatorie, lesione di diritti fondamentali, repressione del dissenso).

La sicurezza viene elevata a feticcio ideologico per giustificare una legislazione autoritaria e identitaria, che comprime le libertà e svaluta la discussione democratica. 

Lo “scippo” del Parlamento

Il decreto-legge n. 48 del 2025 è stato adottato a valle di un iter parlamentare già avviato, svuotando di fatto il ruolo delle Camere. Il contenuto del decreto riprende quasi integralmente il ddl AC n. 1660, già approvato alla Camera e in discussione al Senato. L’avanzamento dell’iter legis ha avuto una battuta d’arresto a seguito dei moniti informali trasmessi dal Quirinale a margine del ddl A.C. n. 1660. Moniti – per inciso – rimasti segreti.  

Il Governo ha poi trasformato un disegno di legge in un decreto-legge, recependo in quest’ultimo i moniti presidenziali. Così facendo il Governo ha obbligato il Parlamento a convertirlo in tempi stretti, riducendo la funzione legislativa a una ratifica formale. 

Il risultato è il cosiddetto “monocameralismo alternato” (Biondi, Vigevani): in sede di conversione, un ramo del Parlamento (il primo ove parte l’esame del ddl di conversione) esamina il decreto-legge, eventualmente apportando modifiche, e l’altro ramo del Parlamento si limita solo a ratificare quanto approvato dal ramo del Parlamento intervenuto in prima istanza. Questa prassi contrasta con l’art. 70 Cost., che prevede un processo bicamerale, e configura un vero e proprio svuotamento del potere legislativo (in questo senso Carnevale). 

Eterogeneità del decreto (Corte cost. n. 146/2024, Biondi e Vigevani)

Recentemente, la Corte costituzionale, nella pronuncia n. 146 del 2024, ha affermato che: “in presenza di un termine assai breve, entro cui il Parlamento deve decidere se e con quali emendamenti approvare la legge di conversione del decreto-legge, l’eterogeneità dell’atto normativo governativo preclude un esame e una discussione parlamentare effettivi nel merito del testo normativo. La brevità del termine, assegnato al Parlamento per decidere se approvare la legge di conversione e con quali emendamenti, esige, affinché sia rispettata la funzione legislativa del Parlamento, che l’oggetto da disciplinare sia circoscritto.  Senza il rispetto di tali condizioni, il decreto-legge si tramuta in un improprio “disegno di legge ad urgenza garantita”, in cui si possono trasfondere le norme più disparate, confidando nel fatto che la legge di conversione ne consolidi l’efficacia” (sent. n. 146 del 2024, n. 7 del Cons. in dir.).

Il decreto-legge n. 48/2025 presenta una eterogeneità interna eccessiva, che viola il principio di omogeneità richiesto dall’art. 77 Cost. e dalla legge n. 400/1988.

Il decreto introduce 14 nuove autonome fattispecie penali e 10 fattispecie aggravanti, e tocca ambiti diversissimi: terrorismo, beni mafiosi, cannabis light, diritto penale minorile, carceri, sicurezza urbana, identificazione utenti, ecc. Tali disposizioni non sono né coerenti oggettivamente, né funzionalmente riconducibili a una situazione straordinaria unitaria. Come sottolineato nella sentenza, si tratta di un “disegno di legge a urgenza garantita”, usato per superare l’ostacolo del dibattito parlamentare.

Sul punto, occorre tenere a mente come l’eccessiva eterogeneità rende sempre più complessa la ricerca sia di una ratio unitaria che sorregga il requisito della omogeneità sia anche delle indefettibili ragioni di necessità legate al provvedere. Infatti, più eterogeneo è il contenuto, più arduo diventa giustificare la necessità oggettiva di intervento con provvedimento d’urgenza. 

Assenza di presupposti di straordinarietà e urgenza

In definitiva, Il documento giuridico fornisce una dimostrazione sistematica dell’insussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 77 Cost.:

  • il testo del decreto era già in esame parlamentare da mesi;
  • non sono intervenuti fatti nuovi o straordinari a giustificarne l’urgenza;  
  • nel Preambolo del dl non vi è alcuna motivazione concreta sulle ragioni di necessità e straordinarietà che hanno condotto all’adozione del dl in questione. 

Il Governo si è limitato a dichiarazioni apodittiche: gli epigrafi del ddl e del dl sono identici, con eccezione del termine “urgenti” che figura in quest’ultimo. Da questo aspetto formale, oltre a manifestare l’assenza di motivazione, è indice anche dell’assenza del presupposto della straordinarietà, proprio per l’assenza oggettiva di ragioni a supporto della sua esistenza. 

  • il ministro dell’interno ha dichiarato che lo scopo era “ottenere tempi certi”, dunque un’esigenza politica e non di rilievo costituzionale ai sensi dell’art. 77 Cost..

Il ricorso al decreto-legge ha quindi avuto una finalità strumentale, diretta a evitare il confronto parlamentare e le modifiche, in spregio al principio di legalità e democraticità del procedimento legislativo. Sul punto, Carnevale parla efficacemente di “rincarata umiliazione del ruolo del Parlamento” con rifermento ad “un caso di evidente mancanza dei presupposti di necessità e urgenza”.

Questo “scippo” aggrava dunque la violazione dell’art. 77 Cost. per due ragioni, che si fondono tra loro:

  • il Parlamento si è visto sottrarre un disegno di legge, dunque limitare nell’esercizio del potere legislativo, in quanto è stato emanato un dl identico al dl pendente in Parlamento. Si noti che i lavori parlamentare del Senato, relativi al ddl “scippato” dal Governo, sono stati sospesi subito dopo la emanazione del dl. 
  • in materia penale, questo comportamento del governo è ancora più grave, posto che la riserva di legge ha un significato molto pregnante, rispecchiando la legge la volontà della maggioranza, scaturita da un dibattito pubblico e trasparente, cui hanno partecipato anche le minoranze (v., oltre alla sent. n. 146 del 2024, già citata, la sent. n. 32 del 2020).

Madri detenute (etnia rom e diritto penale d’autore)

Si stabilisce che la facoltà (non più l’obbligo) per il rinvio della pena per madri con figli piccoli (d’età inferiore all’anno), oltre a essere marginale sul piano quantitativo, è gravemente stigmatizzante. Nel corso del dibattito parlamentare è emerso, in particolare, come possa essere stigmatizzante nei confronti delle donne rom, attribuendo loro un uso strumentale della maternità (nelle parole della deputata Bisa della Lega, questa misura “impedisce alle borseggiatrici di sfruttare la gravidanza per evitare il carcere”).

Si tratta di una criminalizzazione della condizione sociale ed etnica, cioè un’applicazione del diritto penale d’autore, che punisce “chi sei” più che “ciò che hai fatto”.

La deterrenza di tale misura è dubbia: studi criminologici mostrano che la minaccia della pena è inefficace in contesti di emarginazione sociale. 

Sul piano costituzionale, è stato osservato, come tale scelta “viene complessivamente piegata alla esigenza di far fronte ad un fenomeno simbolicamente strumentalizzato a livello politico, facendo leva anche su genere ed etnia della categoria colpita” (Pellizzone).

Al contrario, sarebbe più utile rafforzare misure di integrazione sociale, educativa e lavorativa, specie per donne rom, che spesso sono abbandonate dalle istituzioni e agiscono in un contesto culturale e familiare sfavorevole.

Il diritto penale, in questi casi, rischia di essere strumento di esclusione, non di rieducazione o prevenzione.

Repressione del dissenso

Il decreto inasprisce le pene anche per forme di dissenso pacifico, specialmente nelle carceri e nelle manifestazioni. 

In particolare, il decreto sicurezza introduce nuovi reati legati a situazioni di protesta, tra cui il nuovo delitto di rivolta in carcere (art. 415-bis c.p.) e il corrispettivo previsto per i Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) e gli hotspot (art. 14, co. 7.1 T.U. immigrazione). Per chi partecipa a una rivolta in carcere, la pena va da 1 a 5 anni; per chi la promuove o dirige, da 2 a 8. Le pene per le rivolte nei CPR sono leggermente inferiori.

La novità più rilevante è che il reato di rivolta in carcere è stato inserito tra quelli che limitano l’accesso a benefici penitenziari (come permessi premio, semilibertà o lavoro esterno) per chi non collabora con la giustizia, a meno che non si dimostri l’assenza di legami con la criminalità organizzata o eversiva.

Le condotte punibili includono non solo atti di violenza o minaccia, ma anche forme di resistenza passiva, come il rifiuto collettivo di obbedire a un ordine, se ciò ostacola l’operato del personale. (n.b. nel passaggio dal disegno di legge al testo definitivo si è specificato che devono essere ordini legati a sicurezza e ordine interno, resta problematico che la semplice disobbedienza sia equiparata a una rivolta).

Un’ulteriore misura controversa riguarda la reintroduzione del reato di blocco stradale o ferroviario, oggi esteso anche a manifestazioni pacifiche. In passato, solo l’uso di materiali che impedivano fisicamente la circolazione era penalmente rilevante; ora lo è anche il semplice “blocco col corpo”. Di fatto, forme di disobbedienza civile non violenta rischiano il carcere. 

In definitiva, come sottolinea Dolcini, si amplia la nozione di “resistenza” anche a comportamenti simbolici o passivi (es. rifiuto collettivo del vitto, proteste coordinate). La repressione si estende a condotte non violente, riducendo lo spazio dell’espressione democratica e svuotando il significato degli artt. 17 e 21 Cost.

In questo modo, si delimita arbitrariamente il dissenso accettabile, rafforzando il controllo statale sul conflitto sociale. Una democrazia sana, però, si fonda anche sul conflitto legittimo, non sulla sua criminalizzazione.

Sicurezza e iper tutela delle forze dell’ordine

Un chiaro esempio dell’attuale orientamento politico-criminale si riscontra nelle nuove aggravanti introdotte per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale (artt. 336 co. 4, 337 co. 2 e 339 co. 4 c.p.). In particolare, quelle previste per condotte commesse ai danni di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza sollevano dubbi significativi di legittimità costituzionale.

L’aggravante di cui all’art. 337, comma 2, c.p. è già stata oggetto di attenzione da parte della magistratura. Recentemente, la Procura di Foggia ha presentato istanza di rimessione alla Corte costituzionale, rilevando una discriminazione irragionevole: viene trattato più severamente chi si oppone con violenza o minaccia a un atto d’ufficio compiuto da un agente di pubblica sicurezza rispetto a chi compie la stessa azione verso altri pubblici ufficiali, pur in assenza di una diversa gravità sostanziale. La questione è ora al vaglio del Tribunale di Foggia, che potrebbe rimetterla alla Corte costituzionale.

Un’ulteriore criticità riguarda l’entità dell’aumento di pena previsto da queste aggravanti, che può arrivare fino alla metà del massimo edittale. Tale incremento risulta, secondo molti, sproporzionato rispetto alla gravità dei fatti, mettendo in discussione il principio costituzionale di proporzionalità della pena.

A tali profili si aggiungono alcune misure contenute nel dl sicurezza che, pur non intervenendo direttamente sul piano penale, rafforzano la protezione degli operatori delle forze dell’ordine in modo discutibile. Ad esempio, la previsione dell’uso di bodycam per gli agenti durante i servizi di ordine pubblico (art. 21 del decreto) non è obbligatoria, né viene imposto l’uso di codici identificativi visibili, riducendo la trasparenza operativa.

Vi è poi l’art. 22, che garantisce un rimborso spese legali fino a 10.000 euro per ogni fase del processo agli agenti coinvolti in procedimenti penali per fatti di servizio, una misura molto generosa se confrontata con il rimborso massimo di 500 euro previsto per gli avvocati che assistono i migranti nei centri in Albania. Infine, la norma che consente agli agenti di portare armi anche fuori servizio (art. 28) è considerata da molti esperti criminologi potenzialmente pericolosa, in quanto la disponibilità diffusa di armi da fuoco è statisticamente correlata a un aumento degli omicidi.

Di fronte a un testo che purtroppo ora è legge dello Stato, che presenta così evidenti violazioni del testo costituzionale, di fronte a un contesto internazionale che vede emergere forme di autoritarismo vecchie e nuove, occorre fare uno sforzo, come in questo momento di riflessione insieme, nel senso che indicava Hannah Arendt, ragionando sulla “banalità del male”, e cioè “fermarsi a capire, senza giustificare”. 

Marilisa D’Amico è Professoressa Ordinaria di Diritto costituzionale presso l’Università degli studi di Milano

Supportaci

Difendiamo la Costituzione, i diritti e la democrazia, puoi unirti a noi, basta un piccolo contributo

Promuoviamo le ragioni del buon governo, la laicità dello Stato e l’efficacia e la correttezza dell’agire pubblico

Leggi anche

Newsletter

Eventi, link e articoli per una cittadinanza attiva e consapevole direttamente nella tua casella di posta.

×