I social media come spazio di (de)umanizzazione della popolazione palestinese

11 Giugno 2025

Articolo pubblicato su CRIMePo
Chiara Chisari, 10 Giu 2025

Titolo originale I social media come spazio di (de)umanizzazione della popolazione palestinese

Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

Accanto alla narrazione dei media ufficiali, non scevra da pesi ideologici, hanno preso spazio le testimonianze dirette dalla Striscia. Dando voce a chi vive quotidianamente le atrocità.

L’attuale genocidio a Gaza è ampiamente riconosciuto come il più ‘social’ della storia: mai prima d’ora un conflitto armato, una strage o una qualsiasi atrocità erano stati così largamente condivisi e discussi attraverso le piattaforme digitali. Anche in considerazione dell’accesso limitato ai territori di guerra da parte della stampa internazionale, i social media si sono affermati come un’importante fonte di informazione, consentendo una circolazione transnazionale, immediata e decentralizzata di immagini e testimonianze.

Certo, l’informazione veicolata attraverso i social media non è andata esente da distorsioni: in risposta a pressioni governative o in base ai propri sistemi di moderazione, le piattaforme hanno adottato misure censorie, penalizzando, in special modo in alcuni Paesi, utenti arabofonɜ e contenuti a sostegno della causa palestinese. Inoltre, i social hanno favorito la polarizzazione del discorso pubblico, semplificando le posizioni degli attori coinvolti nel conflitto e amplificando le emozioni più divisive, come la rabbia e l’indignazione.

Tuttavia, è proprio in questo spazio carico di tensioni e ambivalenze che sono emerse narrazioni spesso marginalizzate dai media tradizionali: dando voce a chi vive quotidianamente le atrocità, i social media sono talvolta riusciti a spostare l’attenzione dai quadri interpretativi istituzionali della violenza alle pratiche e all’esperienza di chi la agisce e la subisce, restituendo concretezza e prossimità a una realtà che, da lontano, rischierebbe di apparire eccessivamente astratta e quindi difficilmente intelligibile.

Questa peculiare modalità di racconto risulta particolarmente interessante per le sue conseguenze, ovvero per il modo in cui influenza la nostra percezione del genocidio e, specialmente, di coloro che in esso sono coinvoltɜ.

In termini generali, occorre premettere che i media non operano come meri canali di trasmissione dell’informazione, ma si configurano come dispositivi ideologici attivi nella produzione di senso, capaci di orientare l’opinione pubblica e di modellare le categorie attraverso cui comprendiamo ciò che è “altro” da noi. In riferimento ai contesti conflittuali, diversi studi hanno mostrato come i media tradizionali abbiano storicamente contribuito a incentivare forme di disumanizzazione, attraverso molteplici strategie retoriche e visive: la riduzione dell’altro a minaccia, la mancata raffigurazione di emozioni o tratti empatici, l’occultamento delle sofferenze e la decontestualizzazione della violenza. Come sottolinea Judith Butler in Frames of War: When Is Life Grievable? (2009), queste tecniche producono l’effetto di negare all’altro lo status di essere umano, capace di provare sofferenza e quindi degnə di lutto (grievable) e di protezione, anche sul piano giuridico. In altre parole, il discorso disumanizzante dei media concorre a determinare la sospensione dei codici fondamentali della morale e, in conseguenza, legittima l’oppressione e l’uso estremo della forza.

Nel caso del genocidio a Gaza, alcune ricerche hanno evidenziato l’adozione di tali pratiche discorsive da parte dei media tradizionali: sulla base di pregiudizi islamofobi, radicati in stereotipi di matrice coloniale, le persone palestinesi – e, in particolare, gli uomini palestinesi – sono state generalmente rappresentate come pericolose, violente e misogine, relegate al ruolo esclusivo di “aggressorɜ” e “terroristɜ”. Anche nei casi in cui lɜ palestinesɜ sono statɜ vittime di bombardamenti o gravi violazioni dei diritti umani, giornali e telegiornali hanno spesso neutralizzato la loro umanità mediante formule impersonali (“obiettivi colpiti”) o hanno giustificato implicitamente la violenza nei loro confronti in nome della sicurezza di Israele, descritto come un attore “costretto a difendersi”.

Tali rappresentazioni sono state veicolate anche attraverso le piattaforme digitali. La narrazione del genocidio promossa dalle autorità israeliane sui social media risulta, infatti, profondamente deumanizzante: le operazioni militari letali condotte contro lɜ palestinesi sono state accompagnate da slogan e video musicali, costruendo una retorica spettacolare che oscura deliberatamente la sofferenza umana, legittima la violenza e neutralizza l’empatia di chi guarda. Dinamiche analoghe si riscontrano anche su piattaforme estranee alla logica propagandistica. È il caso, ad esempio, dell’app di dating Tinder, il cui utilizzo da parte di soldati israeliani impegnati nei combattimenti è stato oggetto di documentazione da parte del fotografo italiano Federico Vespignani. Come da lui mostrato nel progetto Short-Term, But Long-Term, i militari condividono con disinvoltura autoritratti armati, spesso ambientati tra le macerie dei territori occupati. Queste immagini contribuiscono ad attivare un processo di “militarizzazione erotica”, in cui la violenza si intreccia a codici seduttivi, normalizzandosi anche nella sfera delle relazioni personali.

Queste narrazioni deumanizzanti, per quanto efficaci, non sono però riuscite a monopolizzare il panorama mediatico digitale: lɜ utenti occidentali, infatti, si confrontano quotidianamente con contenuti di segno diametralmente opposto, che restituiscono umanità e complessità alla popolazione palestinese. Attraverso la diffusione di immagini e testimonianze dirette – spesso reccolte con smartphone e pubblicate principalmente sulle piattaforme di Instagram e TikTok – è emersa una narrazione che frantuma la rappresentazione monolitica delle persone palestinesi come “terroriste”, presentandole come padri, madri, figliɜ, medicɜ o giornalistɜ. Da questo punto di vista, non conta solo la documentazione della violenza subita, ma soprattutto la visibilità che viene data alla vita quotidiana sotto assedio, alla sofferenza, alla cura, alla solidarietà.

In breve, contrapponendosi all’emarginazione dell’esperienza di vittimizzazione e di resilienza palestinese, i social media sono emersi come luoghi di resistenza discorsiva, capaci di disturbare l’ordine simbolico dominante. Essi hanno generato una prossimità affettiva e visiva che sta contribuendo alla destabilizzazione degli stereotipi e dei pregiudizi istituzionalizzati, facilitando l’identificazione empatica e stimolando la mobilitazione globale, tutti elementi fondamentali nella prospettiva di una soluzione non violenta dei conflitti.

CHIARA CHISARI. Assegnista di ricerca in Criminologia presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi interessi di ricerca riguardano le dinamiche della violenza collettiva, i processi di pacificazione post-conflittuale e le forme contemporanee di penalità, con un focus critico sul sistema carcerario.

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