Giulia Leitner, 23 anni: noi, pronti per una gigantesca macchina che ingoia lavoratori flessibili per poi sputarli
“Referendum? Io continuo a dire ‘ci penso’ ma farò propaganda perché la gente se ne stia a casa”. Così si è espresso Ignazio la Russa, presidente del Senato e seconda carica dello Stato, riguardo al Referendum di giugno. Con lui, diversi altri nomi importanti tra le fila del Governo italiano invitano la popolazione italiana a “starsene a casa” scatenando un acceso dibattito sulla legittimità della propaganda pro astensionismo da parte di autorità istituzionali di altissimo livello. Il dibattito però nasconde ben altro, temo.
Mettiamola così, la mia generazione è nata, cresciuta e addestrata alla precarietà più totale al punto che in larga parte non siamo neanche in grado di contestarla. Fa parte di noi. Punto. Ma questo, credo, ha delle conseguenze in tante cose che sembrano lontane tra loro.
Ascoltando i racconti dei genitori, sento parlare di una realtà nella quale anche nella difficoltà c’era la prospettiva di un futuro condiviso, nella quale c’era spazio per la speranza di realizzare se stessi. Nella quale, nonostante le avversità, ci si sentiva parte davvero di una società dove tutti avrebbero potuto cercare uno spazio per se stessi e i propri figli.
Oggi, io figlia, faccio fatica a comprendere i loro racconti. Mi rendo conto che io e i miei coetanei sappiamo nulla della storia recente, ancora meno sappiamo di diritti, pari opportunità, di una società che chiede a tutti uno sforzo per una crescita comune e in cambio ti offre lavoro stabile e ben retribuito.
Non ne sappiamo nulla e ancora meno ne parliamo, del resto se non conosci per niente una cosa come fai a parlarne? Siamo perfetti per una gigantesca macchina che ingoia lavoratori flessibili per poi sputarli senza neanche dovere fare i conti con una coscienza collettiva.
E ancora. Abbiamo spesso l’impressione che, salvo eccezioni, per chi arrivi da classi sociali più modeste non importa quanto studiamo, quanto lavoriamo, quanto ci sforziamo per raggiungere un obiettivo. Non ci viene data alcuna prospettiva futura reale. Anzi, ci sentiamo perfino dare degli inetti o dei “choosy”, come se fosse colpa nostra l’essere abbandonati. Come se non desiderassimo con tutti noi stessi poterci realizzare e contare davvero.
Tutto questo ha delle conseguenze. La società non ci dà niente e allora cosa dobbiamo noi a questa società? Difficile appassionarsi a cose che in questo modo diventano lontane, quasi irreali. Cosa importa dei diritti se siamo addestrati a non averne e sapere che, comunque, esiste solo un meccanismo di libertà feroce, di individualismo dove prevale non il più intelligente ma il più forte.
E allora l’unica via di uscita diventa scappare all’estero in cerca di chance, abbandonando il luogo che avremmo voluto migliorare.
E allora mi chiedo, è davvero una scelta “rimanere a casa”?
Forse è la triste realizzazione dell’inutilità di combattere per qualcosa che non ci appartiene. Non è una scelta. È indifferenza. Diviene quindi facile tacciare come una decisione, un sentimento che trae la sue origini da qualcosa di molto più grave e profondo.
Questo Paese ha premuto il grilletto contro la sua stessa generazione. Raggiungere l’obiettivo di convincere uno qualsiasi dei suoi cittadini, dai giovani agli adulti, a rinunciare a se stessi significa giustiziare l’ennesima speranza che questo posto possa risollevarsi.
A proposito, una piccola crepa. Io andrò a votare. Chissà.
Matteo Conti, 21 anni: perché per poter costruire un futuro un po’ migliore, servono certezze
Io l’8 e il 9 giugno andrò a votare. Andrò a votare perché non voglio passare 10 anni della mia vita a saltare da un contratto a tempo determinato all’altro, perché per potermi costruire un futuro ho bisogno di certezze. Andrò a votare perché ci sia giustizia sul posto di lavoro, perché io venga tutelato se mai fossi licenziato. Andrò a votare perché non ne posso più di sentire di morti sul lavoro, perché non è accettabile che un giorno qualcuno vada a lavoro e la sera torni senza un braccio, o addirittura non torni proprio. Andrò a votare perché quasi un milione e mezzo di nostri concittadini non sono considerati tali, andrò a votare perché loro non possono farlo.
L’8 e il 9 giugno andrò a votare perché avremo la possibilità di rendere il nostro futuro un po’ più sicuro, un po’ più stabile, un po’ migliore. E potremo farlo noi, direttamente, con le nostre mani. Ma proprio perché saremo noi a doverlo fare, di mani ce ne servono tante.
VOTIAMO, VOTIAMO, VOTIAMO!