Massacro. La prima volta che mi sono imbattuto nelle contorsioni ideologico-linguistiche della crisi mediorientale era il 1988, durante la prima intifada. E la parola tabù era “massacro”.
Un incosciente direttore di Radio Popolare aveva deciso di mandare un altrettanto giovane e incosciente come inviato in Palestina. Ed io di fronte alle centinaia di palestinesi feriti o uccisi ero scioccato: come si poteva rimanere neutrali di fronte ad una spaventosa, reiterata, feroce repressione? Poi una mattina, vicino alla Porta di Damasco, ho visto quella parola che spuntava in un titolo del Jerusalem Post. Il moderatissimo Jerusalem Post che finalmente usava la parola “massacro”??? Ho comprato quel giornale e avidamente l’ho sfogliato per arrivare a quel titolo, scoprendo che si riferiva ad un massacro di polli avvenuto in seguito ad un attentato palestinese contro un allevamento dei coloni.
Sono passati quasi quarant’anni da quell’episodio ma la sostanza non è cambiata. Ora la parola tabù è “genocidio“.
In questi venti mesi non l’ho mai usata in interventi pubblici, non perché la trovi inadatta, tutt’altro, ma perché rischiava di spostare l’attenzione dalla sostanza alla forma. Con grande saggezza Anna Foa ci ricorda che quella parola, genocidio, andrebbe usata al plurale, come la storia purtroppo insegna. (Siamo alla vigilia del terzo genocidio “certificato” in Europa, quello dei musulmani bosniaci di Srebrenica).
Ok, Nanni Moretti ce l’ha insegnato – ricordate “le parole sono importantiiiiiiiiiiiiiiiiiii”? – ma i media e i social hanno esasperato negli ultimi anni i meccanismi che riducono il dibattito pubblico ad un ping pong polemico. I primi mesi degli attacchi dell’esercito israeliano sui civili di Gaza era odioso sentirsi obbligati a premettere “io non sono antisemita”, “Israele ha le sue ragioni” per potersi esprimere. Se ci pensate è l’esaltazione tragica della par condicio, quella che – nata per bilanciare lo strapotere mediatico di Berlusconi – è diventata una aberrante parificazione di tutte le opinioni, anche quelle criminogene.
È cambiato qualcosa nelle ultime settimane? Sì. Il primo segnale inequivocabile è arrivato il 10 maggio, quando a Wael Al-Dahdouh – il giornalista palestinese al quale l’IDF ha sterminato la famiglia – è stato consegnato il Premio Terzani. Il Teatro di Udine era stracolmo e il collega di Al Jazeera ha ricevuto una standing ovation di cinque minuti. Ma come, Al Jazeera, ovvero il giornalismo schierato riceve un premio dedicato al giornalista simbolo dei grandi reportage di guerra? Sì, proprio così. E nessuno, a parte un portaborse locale di Fratelli d’Italia, ha avuto da ridire.
Ma allora perché la difesa dell’indifendibile ha resistito così a lungo?
I libri di Anna Foa, Lorenzo Kamel, Anna Momigliano, Ilan Pappè lo spiegano in modo ineccepibile dal punto di vista storico.
Più modestamente posso darvi qualche spunto. 1) La Shoah è una ferita non rimarginata. Sia per gli ebrei che per chi ha aiutato a compierla (i nostri nonni). 2) I palestinesi sono arabi. E in tempi di razzismo diffuso non è poco. 3) Le istituzioni e le aziende israeliane spendono molto in propaganda e sono molto ricercate dai businessmen. 4) in Italia – forse in tutto il mondo – cresce l’analfabetismo cognitivo, pochi sanno riconoscere una notizia attendibile da una fake news, paga di più l’urlo sguaiato che il ragionamento.
Però… È vero, c’è un però. I giornalisti che dovrebbero raccontare la realtà senza nascondere i particolari scomodi per una o l’altra parte dove sono finiti? Purtroppo il mondo dell’editoria è sotto attacco da anni: l’infotainment è diventato legge; in tempi di poche copie vendute e web gratis gli editori sono sempre più attenti al marketing che all’attendibilità; sempre meno giornalisti hanno il contratto della categoria che permetteva una libertà di critica che ora nessun precario può più permettersi di esercitare. Certo, esistono ancora media liberi, ma sono marginali rispetto al mainstream televisivo, e ci sono giornalisti che lavorano sottotraccia per un’informazione etica.
Torniamo alla domanda: perché c’è questo riposizionamento dei media, articoli che non nascondono più i crimini di guerra compiuti da Israele? Credo sia stato un effetto a tenaglia: da una parte, appunto, il lavoro silenzioso dei giornalisti che ha spinto il sindacato (FNSI) e l’Ordine dei Giornalisti a prendere posizione in solidarietà con i colleghi palestinesi uccisi con precisione sospetta; e dall’altra parte c’è l’inevitabile bagno di realtà, perché l’opinione pubblica di fronte alle dimensioni dell’orrore di Gaza non ci sta più.
Se n’è fatta portavoce, come spesso le accade, Francesca Mannocchi, nel suo articolo di pochi giorni fa sulla Stampa che iniziava con un semplice “Quando è troppo è troppo”. Vero. Ma questo non riduce di un grammo la rabbia che si prova per tutti coloro che per venti lunghi, strazianti mesi, hanno pensato che non era troppo.
Se questo accade in Italia provate a immaginare in Israele, dove pochi, pochissimi vogliono vedere cosa succede a Gaza. Eppure basterebbe andare su internet. Lo fanno perché hanno introiettato le vecchie paure della Shoah? Certo. Ma anche perché la maggioranza degli israeliani è fermamente convinta che la propria sicurezza passi necessariamente dall’apartheid contro i palestinesi (giustizia separata, carcerazione senza processo, strade divise, check point…) e dalla pulizia etnica/allontanamento forzato dei palestinesi di Gaza e nella riduzione a bantustan dei villaggi palestinesi in Cisgiordania. In dimensioni ridotte era quello che vedevo, come dicevo in apertura, durante la prima intifada: la parola “massacro” si usava per le galline dei coloni, non per i giovani palestinesi contro cui l’allora Ministro della Difesa mandava lo Tsahal con l’ordine di “spezzargli le ossa”. Chi era? Yitzhak Rabin. Sì, proprio lui, lo stesso che anni dopo ha firmato gli accordi di pace con Yasser Arafat. Un pacifista riluttante ma realista. Un traditore secondo Ygal Amir che lo ucciderà nel 1994. Il suo assassino veniva dalle file dei coloni suprematisti, gli stessi che stanno guidando la politica israeliana.
Decenni di stratificazioni ideologiche, di ingiustizie esasperate, di guerre striscianti non sono mai il frutto del caso.