Giulia Marotta: L’astensione non è una soluzione, è una condanna
Stiamo vivendo un periodo storico pericolosamente ambiguo. I valori fondanti della nostra Repubblica sembrano ormai considerati da molti come fastidiosi residui del passato, anziché come le radici irrinunciabili del nostro presente e del nostro futuro. In questo clima, diventa fondamentale una presa di coscienza: non possiamo permettere che la nostra voce venga soppressa.
E i giovani, in particolare, devono comprendere che oggi, più che mai, la partecipazione attiva alla vita politica è una necessità, non un’opzione.
Il 7 e l’8 giugno saremo chiamati a votare per cinque quesiti referendari.
I referendum sono strumenti preziosi di democrazia diretta, grazie ai quali ogni cittadino può incidere concretamente sulle leggi e sull’andamento del Paese. Eppure, proprio questi strumenti vengono oggi sabotati da chi dovrebbe difenderli. Alcuni politici, attualmente al governo, hanno chiesto espressamente ai propri elettori di non votare, invitandoli all’astensione. È un atto grave, perché l’astensione, in questo caso, non è neutrale: è un modo subdolo per far fallire la partecipazione popolare, per spegnere il dissenso, per rendere il cittadino spettatore passivo invece che protagonista del cambiamento sociale e politico del Paese.
Molti adulti, stanchi delle istituzioni, delusi da promesse mai mantenute, scoraggiati da un sistema che sembra non ascoltarli più, hanno smesso di votare.
Ma l’astensione non è una soluzione: è una condanna. È cedere spazio a chi usa il potere per legittimare nostalgie autoritarie, censurare opinioni scomode, e delegittimare i diritti civili e politici uno a uno. Ed è proprio per questo che tocca a noi, giovani, rialzare la testa dove altri l’hanno abbassata. Tocca a noi dimostrare che la democrazia non è una cosa senza valore, ma è una conquista da difendere giorno per giorno, voto dopo voto.
Abbiamo idee, energie, competenze. Abbiamo una visione del mondo non appesantita da cinismi o da schemi superati. Eppure, troppo spesso, le nostre voci vengono percepite come “immature” o “utopistiche”. Non è vero. Chi ha paura delle nostre idee è chi preferisce che restiamo zitti, disillusi, lontani dalle urne. Andare a votare, partecipare, alzare la voce, è un atto di resistenza civile. È un modo per dire: questa democrazia è nostra, non la barattiamo con il silenzio né con l’indifferenza. Perché mentre ci chiedono “sobrietà” nel celebrare il 25 aprile, permettono commemorazioni fasciste. Mentre reprimono chi manifesta per i diritti umani, lasciano spazio a chi inneggia a regimi criminali. Mentre tagliano la voce alla stampa libera, applaudono la censura mascherata da “linea editoriale”.
È questo il Paese che vogliamo? La Costituzione ci dà uno strumento potentissimo: il referendum. Disertarlo significa rinunciare a uno dei pochi diritti su cui possiamo ancora contare davvero. La democrazia non muore di colpo. Muore nel silenzio, nell’apatia, nella rinuncia. Muore quando ci convincono che tanto è tutto inutile. Ma non è inutile. Non lo è mai stato. Il voto è un diritto, ma oggi è anche un dovere morale. Perché votare non è solo scegliere un’opzione su una scheda. È scegliere da che parte stare. E noi, giovani, dobbiamo stare dalla parte della partecipazione, della libertà, della memoria, della costruzione di un Paese migliore.
Ludovica Caiafa: votare è l’azione di oggi che ha effetti sul domani
Perché andare a votare al referendum? La risposta non è scontata: dal latino “refero”, questo strumento di manifestazione del proprio pensiero nasce, letteralmente, per riferire. È questo che fa ciascuno di noi: riferisce le proprie idee, i propri pensieri, i propri bisogni, i propri consensi e i propri “No!”.
Il referendum, per quanto mi riguarda è la massima espressione dell’uomo.
Troppo spesso la voce dei cittadini è stata repressa, soffocata sotto un manto di dispotismo e, la democrazia, attraverso il referendum, impedisce questo comportamento subdolo e perverso.
Il referendum sono le azioni che compiamo oggi e che avranno effetti sul domani.
Per quanto mi riguarda il voto è un qualcosa di più personale, lo definisco talvolta un “sacramento”.
Precluso per secoli alle donne, privarmi dell’esercizio del voto rappresenterebbe per me una vergogna, esatto, una vergogna poiché io stessa non riconoscerei l’impegno, le lotte, il sangue versato da migliaia di donne per il raggiungimento della propria libertà.
“Propria” tanto per dire: il sangue da loro versato non è stato fine solo alla libertà personale, ma alla collettività, alla società stessa.
Non a caso la prima volta che le donne hanno votato in Italia, a suffragio universale, è stato ad un referendum, il 2 giugno 1946.
Oggi, come allora, è importante recarsi presso i seggi elettorali, per esprimere la propria preferenza, facendolo nel silenzio della segretezza e secondo il principio della libertà.
Votare è un dovere, oltre che un diritto, e se non voti (per scelta), non hai il diritto di conferire parola in seguito, lamentandoti degli esiti, poiché sei stato tu, in primis, a rifiutare il cambiamento.