Marc Lazar e Olivier Burtin hanno tenuto una conversazione su Le Monde su questi temi, mentre da alcuni mesi si susseguono analisi su The Jacobin, The New York Times, Dissent Magazine e altre testate.
Il rompicapo è irrisolvibile se affrontato per incasellare il trumpismo nel fascismo storico. Non solo perché siamo di fronte a un governo, quello statunitense, che ancora e nonostante gli stiracchiamenti sta dentro i limiti della costituzione, ma anche perché manca quel che diede specificità indiscussa al fascismo: la politica come violenza e l’uso della violenza come mezzo per ottenere obbedienza, eliminare l’opposizione e infine far saltare il sistema costituzionale.
Quest’ultima cosa ha rischiato di avvenire con l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio 2021. Non ha avuto successo ma ha cambiato la natura del trumpismo e ha indotto alcuni storici, come Robert Paxton prima restio a usare la catogoria del fascismo fuori del contesto che l’ha generata e nutrita, a risolvere i dubbi e a considerare il trumpismo una forma di fascismo.
Non si va molto lontano neppure prendendo la strada dell’ideologia. Nonostante le similitudini col fascismo, è assente dal trumpismo la mistica dello stato – semmai c’è la volontà di demolire lo stato amministrazione secondo la religione techno-capitalistica e anarco-liberista.
Circa il nazionalismo, è indubbio che il suprematismo bianco e la xenofobia possono prendere con facilità il posto del razzismo fascista – e sono presenti negli Stati Uniti non da oggi. La dottrina della Race First che ha marciato insieme al mito del Deep South con George C. Wallace, poi catapultata sulla scena federale quando il governatore divenne leader di un movimento populista rappresentativo del working man contro l’establishment progressista.
L’epopea del populismo americano raccontata da Michael Kazin alcuni anni fa è come un dizionario storico della lunga marcia verso il trumpismo, con l’innesto dell’attacco contro lo stato sociale ad opera del maccartismo.
La storia è stata setacciata in tutte le sue pieghe e si ferma sempre di fronte al fattore F. Forse perché, come mi dice un collega, non avendo avuto mai un regime fascista, si può con grande facilità sostenere posizioni e idee che sono fasciste a tutti gli effetti. Negli States manca l’anti-fascismo perché è mancato il fascismo. E tutto è possibile.
Una via d’uscita dall’impasse definitorio è stata offerta da Viktor Orbán e Vladimir Putin che alcuni anni fa hanno sfoderato il neologismo «democrazia illiberale». Ma, direbbe Norberto Bobbio, chi si affida a questa idea per denotare il trumpismo dovrebbe dirci cosa è una democrazia senza la certezza dei diritti di libertà.
Forse, il metodo dell’album di famiglia potrebbe esserci d’aiuto. Non è necessaria, cioè, l’identità esistenziale col fascismo per designare un fenomeno come fascista. Meglio allora far cadere la comparazione col regime storico e anche con la sua ideologia (ammesso che il fascismo ne avesse una sistematica). Meglio seguire la strada dei metodi della propaganda e di persuasione.
Dai megafoni e dalle piazze irregimentate ai social network e all’intelligenza artificiale. Il mezzo cambia la forma della politica e trasforma il fascismo stesso – per esempio rende possibile una violenza non fisica e che ha tuttavia effetti molti simili a quelli dei metodi del passato: umilia le opposizioni, genera paura a esporsi (lo si vede nelle università americane) e conformismo delle opinioni, designa nemici da eliminare ed esercita simboliche carneficine sui siti.
Forma una società remissiva a fronte di leader arroganti, genera la manipolazione e la distorsione delle informazioni e in questo modo vengono minate la ragione individuale e la capacità di consenso ragionato.
Allena alla violenza quotidianamente anche con la pratica ormai accettata largamente delle politiche anti-immigrazione. Non l’ideologia, non il regime, ma la diffusa mentalità che si diffonde facilmente e ha alcune coordinate chiare: il tradizionalismo intollerante; l’uguaglianza solo tra uguali; la definizione di “chi siamo” per sottrazione (di quel che è di disturbo).
La mentalità potrebbe essere una traccia di quel che il fascismo del Ventunesimo secolo potrebbe essere. Come ha scritto Federico Finchelstein, «i fascisti in erba (wannabe fascists) non sostengono apertamente il fascismo, ma gravitano verso lo stile politico e i comportamenti fascisti».