Una storia individuale, semplice e forte, che una parte della Storia della Resistenza ha a lungo taciuto e rimosso, quella degli internati militari italiani (IMI): 650.000 soldati circa che per il rifiuto a combattere con i nazisti dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, divennero prigionieri di guerra rinchiusi e sfruttati nei campi di lavoro nei lager del Terzo Reich.
Per una decisione unanime assunta dal Parlamento, da quest’anno ci sarà anche una data dedicata agli IMI: il 20 settembre. Finora venivano ricordati nel giorno della Memoria, il 27 gennaio.
La piccola storia che rappresenta questo “No!” ripetuto per venti mesi di internamento è quella raccontata da Lorella Beretta, giornalista e responsabile della comunicazione di Libertà e Giustizia, nel libro La luna al suo comando, di Castelvecchi editore. Racconta la vita, e l’internamento, di Felice Magliano, incontrato dall’autrice quando aveva 108 anni, nel suo paese natale, San Giovanni a Piro, in Cilento. Qui, venerdì 9 maggio, alle 19, verrà presentato il libro ufficialmente alla comunità locale, dopo una prima presentazione avvenuta a Milano il 21 marzo: Magliano, bracciante e pastore, al rientro dallo Stalag XVIII A, liberato l’8 maggio 1945, per anni non aveva raccontato niente a nessuno della sua esperienza. Poi, sul finire degli anni ’80, iniziò a parlarne ai nipoti e poi via via divenne testimone instancabile. Per l’internamento ha ricevuto la Medaglia d’Onore dalla Presidenza della Repubblica e la tessera d’onore dell’ANPI.
Il libro ha la prefazione di Liliana Segre, il cui marito, Alfredo Belli, è stato un internato militare. Gianfranco Pagliarulo, segretario dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, ha scritto invece la nota introduttiva.
Oltre alla presentazione a San Giovanni a Piro, con i saluti istituzionali del sindaco e gli interventi di esponenti delle istituzioni e delle associazioni, nei prossimi giorni il libro sarà oggetto di dialogo tra l’autrice e gli studenti di alcune scuole del territorio.
Il 15 maggio, verrà presentato a Roma, all’Archivio Flamigni, con la partecipazione dell’assessore alla cultura del Municipio VIII, Luciano Ummarino, e la direttrice del Museo degli IMI nell’ambito del Festival della Resistenza, Rosina Zucco.
Riportiamo un breve stralcio del libro, che inizia con una testimonianza contro ogni guerra, da parte di un uomo che l’ha fatta “come carceriere e come carcerato”, usando le sue stesse parole.
Capitolo I – L’incontro. Antifascista e contro tutt’ ’i ’uerre
Picchì io sono antifascista e sono contro la guerra. Contro tutt’i ’uerre. Nunn’i facìti, ’i ’uerre… aviti capit’?
È il 13 dicembre 2021, il sole è basso come ogni inverno e caldo come è al Sud. Felice Magliano ha centootto anni. Nella casa della figlia Domenica e del genero Domenico, dove ormai vive da tempo, sta seguendo le notizie. Al telegiornale di mezzogiorno si rincorrono i timori che la crescente tensione tra Russia e Ucraina esploda nell’inevitabile guerra, parola che fa scattare i ricordi ancora nitidi di nonno Felice. I ricordi sono per lui un tormento acuto, intenso e insistente che dopo anni di silenzio a un certo punto, in un certo imprevedibile giorno, si è fatto parola, si è fatto racconto quotidiano per i nipoti ancora bambini e poi, con incontenibile generosità, per chiunque lo voglia ascoltare.
«’A ggiurnalista ’i Milano» dice mentre spreme gli occhi azzurri, aggrotta le sopracciglia folte e scarmigliate, indica lo schermo piatto, incrocia le braccia, schiarisce la voce, attinge aria dai polmoni, e mentre vibrano le corde vocali prende la rincorsa e inizia a dire, senza fare pause, con un timbro caldo che tuttavia gratta un po’ per via dell’età e per l’urgenza di dire quel che non si può più tacere: luoghi, date, aneddoti, città, nomi, fatti trapuntano una mappa orale che si materializza a ogni passo. Con la bocca, la lingua, i denti, le mani Felice Magliano riproduce in presa diretta il rimbombo degli aerei, l’esplosione dei fucili, la deflagrazione delle bombe, l’abbaiare dei cani, i borborigmi della fame, i battiti del cuore durante le fughe, il respiro soffocato davanti alla morte; gli accenti dei commilitoni e dei carcerieri, dialetti e lingue, risate e pianti, iastimi1 e preghiere, urla e urli, grida, rantoli, affanni. In questo pandemonio, ogni tanto irrompe il silenzio, poi nonno Felice contrae i muscoli e solleva le spalle come per proteggersi da un possibile attacco, chiude le palpebre per ripararsi e per non vedere, come se stesse accadendo di nuovo tutto qui, nel soggiorno di casa, vicino al calorifero rovente, tra le figlie, i generi, i nipoti e pronipoti. Ogni visitatore sempre ben accolto; tutti testimoni della guerra mondiale che insensatamente si ripete.
Nonno Felice è un talento narrativo naturale, con la voce e con il corpo plasma la memoria che attraversiamo insieme a lui, patendo con lui la sua stessa sofferta esperienza, che pure ci appartiene.
I ricordi sono lancinanti e si incarnano in una rievocazione orale dolorosa ma necessaria, persino sentimentale: montagne, deserti, mari, città e paesaggi, genti, guerra, schizzi di sangue, concordia, brutalità, esseri umani e umanesimo, preghiere e imprecazioni, canti, morte, dolore, amore, libertà e onore.
- bestemmie ↩︎
