1. Dopo l’approvazione del disegno di legge “sicurezza” alla Camera (Atto Camera n.1660) il 18 settembre 2024, prosegue al Senato l’esame del provvedimento su “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” (Atto Senato n.1236) in un clima in cui è sempre più accentuata l’impronta repressiva con la quale il governo affronta le più rilevanti questioni che deve affrontare, tanto da trasmettere all’opinione pubblica una falsa percezione di sicurezza. Un metodo che si è ampiamente sperimentato in materia di immigrazione ed asilo, a partire dalla legge Bossi Fini n.189 del 2002, che si è poi inasprito con la guerra dichiarata ai soccorsi umanitari dal Codice di condotta Minnitidel 2017 e poi dai decreti sicurezza del governo Conte-Salvini dal 2018 fino ai più recenti provvedimenti del governo in carica, a partire dal Decreto Piantedosi (legge n.15) del 2023.
I numerosi provvedimenti in materia di sicurezza che si sono succeduti nel tempo hanno segnato l’abbandono sostanziale delle regole dello Stato di diritto, con una espansione senza precedenti dei poteri dell’esecutivo, esercitati anche dalle autorità di polizia. Con un progressivo svuotamento della funzione di controllo di legalità affidato alla giurisdizione, dietro la surrettizia qualificazione di atti politici, che si sarebbero sottratti a qualsiasi intervento di controllo dei magistrati, anche con riferimento a provvedimenti come decreti e direttive ministeriali che risultavano in contrasto, oltre che con i principi costituzionali, con le Convenzioni internazionali in materia di salvaguardia dei diritti umani e di garanzia del diritto di asilo e del diritto al soccorso. L’erosione degli obblighi di soccorso stabiliti da queste Convenzioni, richiamate peraltro dal Regolamento europeo Frontex n.656/2014, a carico degli Stati, frutto anche degli accordi bilaterali stipulati con Paesi che non potevano garantire soccorsi efficaci e garanzie minime per i naufraghi ricondotti a terra, ha anticipato quella sovversione del diritto internazionale, se non una sua completa emarginazione, che si presenta oggi come un grave pericolo per la pace, oltre che una ninaccia costante per le vite delle persone costrette all’emigrazione.
2. Il nuovo ordine mondiale che si profila dopo gli accordi dei capi delle grandi potenze sulla pelle delle popolazioni civili, con il ridimensionamento del ruolo dei partiti e dei parlamenti, trova oggi un residuo ostacolo nei corpi intermedi, come le formazioni sociali che ancora si richiamano alla solidarietà umana ed alla dignità della persona, dunque nelle associazioni, e in particolare nelle Organizzazioni non governative impegnate nel soccorso e nell’assistenza delle persone migranti. I governi in carica, soprattutto quelli di destra, spesso imitati da governi di segno opposto, ma fortemente condizionati dalla pressione populista, alimentata con teconologie sempre più invasive, non perdono occasioni per attaccare chi si ostina a svolgere attività di ricerca e salvataggio in mare, anche all’evidente scopo di nascondere i risultati spesso mortali della collaborazione con i paesi di transito, come la Tunisia e la Libia, nel Mediterraneo centrale, in quella che viene comunemente definita come “lotta all’immigrazione illegale”. Una attività di contrasto delle traversate del Mediterraneo che si basa sulla collaborazione con sedicenti “guardie costiere” che, anche quando non sono direttamente collegate con le organizzazioni criminali, intervengono con modalità tali da mettere a rischio i diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita, delle persone intercettate in mare.
3. Si è arrivati al punto di sanzionare gli interventi di ricerca e salvataggio operati dalle ONG con fermi amministrativi che si motivano esclusivamente sulla mancata obbedienza delle navi umanitarie ai comandi, spesso ordini di desistenza dai soccorsi, impartiti da autorità marittime, che non rispettano gli obblighi di soccorso ed i diritti umani che vanno riconosciuti a qualsiasi persona, a prescindere dallo stato giuridico e dalla nazionalità. Una recente decisione del Consiglio di Stato, sulla assegnazione di un porto di sbarco “vessatorio” (lontano dall’area dei soccorsi) ad ua nave umanitaria, contrasta con quanto affermato da numerosi tribunali civili, da Genova a Reggio Calabria, e con diversi provvedimenti dei giudici penali che hanno stabilito la liceità delle attività di ricerca e salvataggio operati dalle ONG come adempimento di un dovere di soccorso, anche in assenza di una preventiva attività autorizzatoria da parte degli Stati, affermando la necessità di uno sbarco sollecito dei naufraghi nel porto più vicino. Perchè la vita umana vale più della difesa dei confini, comunque la pensino alcuni giudici che si stanno allineando alle posizioni repressive dei governi, che continuano a speculare sui “successi” conseguiti con la riduzione degli arrivi via mare, anche se le vittime, che sembrano diminuire in assoluto, sono sempre più numerose in termini percentuali.
4. L’articolo 29 del disegno di legge (nella numerazione del Dl. 1660) in materia di sicurezza pubblica propone di estendere l’applicazione di misure detentive nei confronti dei comandanti delle navi qualora non obbediscano agli ordini della Guardia di finanza impegnata in attività di prevenzione e contrasto al traffico di migranti via mare e all’’immigrazione illegale. Come ha osservato l’OSCE, “Le nuove sanzioni detentive proposte, applicabili al capitano di navi nazionali in caso di disobbedienza agli ordini di fermo della Guardia di Finanza o in caso di atti di resistenza, ed estensione delle sanzioni penali ai capitani di navi straniere per disobbedienza agli ordini di navi da guerra
nazionali, rischiano anche di impattare ulteriormente e indebitamente sul lavoro
delle organizzazioni umanitarie che conducono operazioni di ricerca e soccorso di
migranti in mare.” Si tratta evidentememte dell’ultimo atto della guerra contro i soccorsi in acque internazionali operati in questi anni dalle ONG, dopo una raffica di procedimenti penali che si sono conclusi, a partire dal caso Rackete nel 2019, con provvedimenti di archiviazione delle accuse formulate nella maggior parte dei casi proprio dalla Guardia di finanza. La stessa Guardia di finanza che nel 2009 riconsegnava ai libici decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali, con un respingimento collettivo illegale che ha comportato nel 2012 la condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo, sul caso Hirsi. Oggi si vuole aggirare quella condanna con i nuovi respingimenti collettivi delegati alle sedicenti guardie costiere “libiche” e tunisine, sotto la sorveglianza ed il tracciamento di Frontex che opera a sua volta in diretto collegamento con la Guardia di finanza italiana. Invece di accertare le responsabilità di chi ha oggettivamente rallentato con accuse calunniose i soccorsi civili in alto mare, si accrescono i poteri discrezionali affidati alle autorità di poizia marittima per sanzionare i comandanti delle navi che svolgono attività di ricerca e salvataggio.
5. In base all’art.29 del Disegno di legge sicurezza attualmente all’esame del Senato (Disposizioni per la tutela delle funzioni istituzionali del Corpo della guardia di finanza svolte in mare e modifiche agli articoli 1099 e 1100 del codice della navigazione),” Le disposizioni degli articoli 5 e 6 della legge 13 dicembre 1956, n. 1409, si applicano anche quando le unità del naviglio ivi indicate sono impiegate nell’esercizio delle funzioni istituzionali a esse attribuite dalla normativa vigente. Le disposizioni di cui al primo periodo si applicano, nel rispetto delle norme internazionali, anche quando le condotte sono poste in essere dal comandante di una nave straniera”. La legge 13 dicembre 1956, n. 1409 contiene “norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi” e sanziona con un richiamo agli articoli del Codice della Navigazione il comandante della nave che non obbedisce ai comandi della Guardia di finanza (art.1099 Cod. Nav.) , o compie atti di resistenza o di violenza nei confronti di navi della Guardia di finanza (art.1100 Cod .Nav.).
L’art.1099 del Codice della navigazione sanziona il “Rifiuto di obbedienza a nave da guerra” stabilendo che “il comandante della nave, che nei casi previsti nell’articolo 200 non obbedisce all’ordine di una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione fino a due anni“. L’articolo 1100 dello stesso Codice prevede il reato di “Resistenza o violenza contro nave da guerra”, stabilendo che “Il comandante o l’ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione da tre a dieci anni“. Si tratta di norme che già in passato,a partire dal caso Cap Anamur nel 2004, si è cercato di applicare, senza successo, contro le navi del soccorso civile, come la Sea Watch 3 al comando di Carola Rackete nel 2019, che, dopo avere effettuato soccorsi in acque internazionali, chiedevano di entrare nelle acque territoriali o in un porto italiano per completare l’operazione di salvataggio.
Il disegno di legge sicurezza all’esame del Senato integra le norme già previste dal Codice della Navigazione. In base al secondo comma del medesimo art.29 “Al codice della navigazione sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 1099 è aggiunto, in fine, il seguente comma:
« Soggiace alla medesima pena il comandante della nave straniera che non obbedisce all’ordine di una nave da guerra nazionale, quando, nei casi consentiti dalle norme internazionali, quest’ultima procede a visita e a ispezione delle carte e dei documenti di bordo »;
b) all’articolo 1100, primo comma, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: « La disposizione di cui al primo periodo si applica anche alle navi straniere per gli atti compiuti contro una nave da guerra nazionale impiegata nello svolgimento, in conformità alle norme internazionali, dei relativi compiti ».
6. Le nuove disposizioni che si vorrebbero introdurre per sanzionare comportamenti di resistenza, disobbedienza o addirittura violenza dei comandanti delle navi umanitarie nei confronti di “naviglio della Guardia di finanza”, sembrano un evidente tentativo di inasprire la legislazione vigente con misure di diritto amministrativo punitivo, per sanzionare future attività di ingresso nelle acque territoriali, o nei porti italiani, operati senza il rispetto di tentativi di blocco navale da parte di unità della Guardia di finanza. Tentativi di blocco navale già falliti in passato, che evidentemente rientrano nei piani futuri del governo Meloni. Come le manovre di “interposizione cinematica” con le quali nel mese di giugno del 2019, poco dopo il Decreto sicurezza bis (n.53/2019), una motovedetta della Guardia di finanza tentava, interponendosi tra la nave della ONG e la banchina del porto, di impedire l’attracco al molo di Lampedusa alla nave umanitaria Sea Watch 3 della comandante Carola Rackete. Che veniva poi arrestata, proprio per violazione dell’art.1100 del Codice della navigazione,(resistenza o violenza contro nave da guerra) e resistenza a pubblico ufficiale ex art. 337 c.p.). oltre che per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. In quell’occasione la Procura di Agrigento si pronunciava sulla qualificazione della nave della Guardia di Finanza quale “nave da guerra”, non ritenendo applicabile l’art. 1080 cod. navigazione (ai sensi del quale “le disposizioni penali di questo codice non si applicano ai componenti dell’equipaggio e ai passeggeri di nave o aeromobile stranieri, salvo che sia diversamente stabilito”). Un precedente che evidentemente non è stato dimenticato anche se quel procedimento penale non ha poi avuto l’esito auspicato dal governo del tempo, ed in particolare dal ministro dell’interno pro-tempore Matteo Salvini.
La comandante Rackete veniva poi rimessa in libertà, per la mancata convalida da parte del giudice delle indagini preliminari, in quanto secondo il Gip di Agrigento, la resistenza alla nave da guerra non sarebbe configurabile perché la motovedetta “non è nave da guerra”, oltre che per la ricorrenza della causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere, e quindi definitivamente assolta, con l’archiviazione del caso da parte del Tribunale di Agrigento, dopo una importante decisione della Corte di Cassazione (n.6626 del 2020), che gli attuali legislatori sembrano avere dimenticato del tutto. Come sembrano dimenticati i principi affermati dalla stessa sentenza della Cassazione, nella adozione della legge n.15 del 2023 (decreto Piantedosi). Sono gli stessi richiami al diritto internazionale del mare che vengono ignorati anche dalla recente decisione del Tribunale di Crotone che ha confermato il fermo amministrativo della nave Humanity One nel porto di Crotone nel dicembre del 2023. Una decisione che contrasta non solo con una precedente decisione dello stesso Tribunale di Crotone, che aveva condannato il Governo anche al pagamento delle spese processuali, ma con consolidati arresti della Corte di Cassazione che in diverse occasioni ha affermato che la Libia non è in grado di garantire “porti sicuri di sbarco”, e che non possono essere sanzionati i comandanti delle navi umanitarie che, in acque internazionali, non obbediscono ai comandi di una delle sedicenti guardie costiere libiche. Per il ministro Piantedosi invece, il Tribunale di Crotone avrebbe affermato che “la Guardia costiera e di frontiera libiche sono ‘le autorità chiamate a gestire i flussi migratori nell’area di ricerca e soccorso di competenza’, secondo quanto previsto dalle vigenti convenzioni internazionali”. Le Convenzioni internazionali richiamate da Piantedosi vietano però lo sbarco dei naufraghi in porti non sicuri, ribadiscono il divieto di respingimenti collettivi, e in generale dovrebbero impedire accordi internazionali che comportino la violazione dei diritti fondamentali delle persone garantiti da Convenzioni internazionali (art.53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati).
La “competenza” delle autorità libiche, con particolare riferimento alla pretesa zona SAR (di ricerca e salvataggio) libica, istituita nel 2018 con il riconoscimento dell’IMO, su forte impulso italiano, dopo la stipula delMemorandum d’intesa del 2 febbraio 2017, non può legittimare in alcun modo il supporto ad operazioni delle motovedette libiche che contrastano i soccorsi umanitari delle ONG, riferendo poi alle autorità italiane che sarebbero state proprio le navi umanitarie a determinare “situazioni di pericolo” con il loro intervento di soccorso. Un livello di collaborazione tra autorità libiche ed italiane che permette di affermare una vera e propria complicitànelle gravissime violazioni dei diritti umani subite dai naufraghi durante i soccorsi e poi dopo la loro riconduzione forzata in Libia. Violazioni sistematiche dei diritti umani che in Libia non sono mai cessate, come è confermato dalle attività di indagine della Corte Penale internazionale e dai Rapporti delle principali agenzie delle Nazioni Unite, come l’OIM e l’UNHCR.
7. Secondo la Corte di Cassazione (sentenza n.6626/2020) nel caso Rackete, proprio per il fatto che, nel 1956, il legislatore ha esplicitamente stabilito che agli atti di resistenza commessi contro navi della Guardia di finanza si applicassero le medesime pene previste per la resistenza a nave da guerra, si deve concludere che di per sé tali navi non sono annoverabili tra le “navi da guerra”. Diversamente ragionando non si comprenderebbe il senso di tale disposizione di legge, che sarebbe del tutto superflua. Inoltre, ad un’attenta lettura, si ricava che il legislatore non ha neppure stabilito che il naviglio della Guardia di finanza sia qualificabile “nave da guerra” quando operi nell’ambito di attività di contrasto al contrabbando, giacché la legge dispone unicamente che nell’ambito della “vigilanza marittima al fine della repressione del contrabbando dei tabacchi” si applichino le pene dell’art. 1100 cod. nav. Il mero riferimento quoad penam non vale ad estendere la qualifica di nave da guerra al naviglio della Guardia di finanza.
Per la stessa sentenza della Corte di Cassazione, “La verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata. In questo ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza”. Per la stessa Corte, “Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento interno, in forza del disposto di cui all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione
nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente.
Nè si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”).
Come ricorda la Corte di Cassazione nella sentenza n. 6626 del 2020, secondo Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la alvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».
Secondo la Corte di cassazione, nel caso Rackete, in base alle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR del 1979, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13).…” Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave”.
8. Per la Corte di Cassazione, sul caso Asso 28, la Libia non presenta i requisiti per garantire porti sicuri di sbarco, con una serie di motivazioni che non valgono soltanto al tempo dei fatti oggetto dei procedimenti sui quali è intervenuta la Corte, ma che continuano ad assumere rilievo anche con riferimento alla situazione attuale. Come è del resto emerso dalla cospicua documentazione depositata agli atti della Corte penale internazionale, che aveva recentemente richiesto all’Italia l’arresto di Almasri, capo della polizia giudziaria di Tripoli e custode di diversi centri di detenzione governativi in Tripolitania, alle dirette dipendenze del premier libico Dbeibah e del ministro dell’interno Trabelsi. interlocutori ancora in questi giorni di Meloni e Piantedosi.
In una precedente occasione, la Corte di Cassazione sul caso Vos Thalassa (Cass., Sez. VI, sent 16 dicembre 2021 (dep. 26 aprile 2022), n. 15869, Pres. Mogini, rel. Silvestri) aveva riconosciuto il diritto alla resistenza esercitato dai migranti rispetto alla prospettiva di essere ricondotti un Libia, dopo essere stati soccorsi in acque internazionali. In quell’occasione la Corte aveva anche ribadito che per quanto riguarda la Convenzione SOLAS, ai sensi del cap. V, Regolamento 33, dell’Allegato, il comandante di una nave in posizione idonea a prestare assistenza, che abbia ricevuto informazioni sulla presenza di persone in una situazione di pericolo in mare, è obbligato «a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza». Al contempo, in base al cap. V, Regolamento 7, dell’Allegato, gli Stati parte sono tenuti «a garantire che vengano presi gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità e per il soccorso di persone in pericolo in mare lungo le loro coste». La sentenza fa espresso riferimento al Memorandum d’intesa concluso nel 2017 tra l’Italia ed il governo di Tripoli, e richiama un parere dell’UNHCR, che ha espresso precise riserve (UNHCR position on returns to Libya (Update II), settembre 2018)affermando che “finché non miglioreranno considerevolmente la sicurezza del Paese e il rispetto dei diritti umani, la Libia non potrà essere considerato né come Paese terzo sicuro per i respingimenti di cittadini libici o provenienti da esso (parr. 37-40), né come Paese terzo sicuro (par. 41), né come porto sicuro nel quale procedere allo sbarco, dopo le operazioni di salvataggio in mare (par. 42)”.
9. Se si rileggono le motivazioni del mandato di arresto di Almasri emesso dalla Corte Penale internazionale si ricava la conferma che in Libia, e nella zona SAR “libica”, ancora oggi permane la situazione denunciata per anni dalle Nazioni Unite e riconosciuta in diverse sentenze dei Tribunali italiani e della Corte di Cassazione che hanno archiviato tutti i procedimenti intentati contro le ONG. Si rileva dunque con maggiore evidenza l’arbitrarietà e la incostituzionalità del decreto Piantedosi del 2023 (legge n.15 del 2023) e la illegittimità di tutte le diverse decisioni di fermo amministrativo che continuano a bersagliare le ONG, sulla base della mancata collaborazione delle navi umanitarie con le motovedette della sedicente Guardia costiera libica. Sarà una questione sulla quale si pronuncerà anche la Corte Costituzionale, e comunque rimane materia di ricorsi diffusi, ad ogni occasione di fermo ammiinistrativo imposto dalle autorità di governo a navi umanitarie i cui comandanti si sarebbero resi “colpevoli” di un soccorso non coordinato dai libici, o di essere intervenuti prima di attendere l’arrivo di una motovedetta libica che avrebbe riportato i naufraghi verso quei luoghi di tortura ben identificati dalle vittime di Almasri con denunce ormai agli atti della Corte penale internazionale.
Secondo l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Brindisi, “L’osservanza dell’ordine impartito dall’autorità libica, sul presupposto della sicurezza dei suoi porti, e l’applicazione dell’art. 1, comma 2-sexies, potrebbe comportare la violazione di obblighi imposti dal diritto internazionale consuetudinario – quanto al divieto di respingimento dei migranti e della tortura – e convenzionale, al cui rispetto l’ordinamento nazionale si è vincolato, con
la conseguente limitazione della sua sovranità, allo scopo di assicurare “la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11 Cost. e art. 117, I comma, Cost.). Il riferimento è al principio del non-refoulement, richiamato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, secondo cui «Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche»
Per questa ragione il Tribunale di Brindisi con ordinanza del 10 ottobre 2024 ha ritenuto “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2 sexies del D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito in legge 18 dicembre 2020, n. 173, come modificato dal D.L. 2 gennaio 2023, n. 1, convertito con modificazioni dalla l. 24 febbraio 2023, n. 15, in riferimento agli artt. 3, 11, 25, 27 e 117 Cost., nella parte in cui, dopo aver inflitto la sanzione principale del pagamento di una somma da euro 2.000 a euro 10.000 nei confronti di chi non si “uniforma alle indicazioni” fornite dalla “competente autorità nazionale per la ricerca e il soccorso in mare nonché dalla struttura nazionale preposta al coordinamento delle attività di polizia di frontiera e di contrasto dell’immigrazione clandestina o non si uniforma alle loro indicazioni”, prevede che “alla contestazione della violazione consegue l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo per venti giorni della nave utilizzata per commettere la violazione”.
10. Le nuove norme introdotte dal disegno di legge “sicurezza” attualmente all’esame del Senato mirano evidentemente ad aumentare i poteri della Guardia di finanza e le responsabilità dei comandanti di navi straniere che subiscono visite ispettive a bordo al fine di acquisire documentazione, utile non solo per giustificare successivi provvedimenti di fermo amministrativo, ma anche per avviare procedimenti penali nei confronti dei comandanti delle navi che hanno operato interventi di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Sembra quasi un segnale di ritorno alla stagione dell’attacco mediatico-giudiziario alle ONG con le denunce dei comandanti e dei capi-missione per il reato di agevolazione dell’immigrazione clandestina. Una fase, aperta nel 2017 con il sequestro della nave umanitaria Iuventa, che si poteva ritenere definitivamente chiusa con la sentenza di non luogo a procedere emessa dal Tribunale di Trapani nel 2024, dopo che nel corso delle indagini di polizia giudiziaria erano state utilizzate intercettazioni illegali e rapporti farlocchi di ex agenti in contatto con Salvini e con i vertici del Servizio centrale operativo (SCO) del ministero dell’interno. Una vicenda che nel corso degli anni aveva avuto un rilevante effetto sul discorso pubblico e quindi sui consensi elettorali, malgrado successivi procedimenti penali intentati contro i soccorritori delle ONG fossero stati archiviati.
Il rafforzamento dei poteri di polizia, e il corrispondente aumento delle responsabilità dei comandanti delle navi del soccorso civile confermano la linea repressiva, anche in violazione del diritto internazionale, adottata dal governo Meloni, che comincia a trovare appoggi da parte della magistratura amministrativa e da alcuni giudici civili, mentre si tace sulla attuale portata operativa degli accordi con i libici e sui gravissimi abusi denunciati alla Corte penale internazionale sul caso Almasri, e non solo. Perchè anche altri uomini delle milizie libiche che collaborano con il governo Dbeibah e con il ministro dell’interno Trabelsi, recentemente in Italia, sono nel mirino della Corte dell’Aja, in un momento in cui l’intero sistema Libia,considerato pure nella sua frammentazione territoriale, come attività militare di intercettazione in alto mare e come detenzione arbitraria nei centri di trattenimento governativi, è sotto l’attenzione della Procura di quella Corte.
Si corre però il rischio che, a fronte della generalizzata violazione del diritto internazionale su scala globale, come è emerso da anni ormai, ma in modo particolarmente crudele in Ucraina ed in Palestina, alla quale corrisponde la perdita di autorevolezza delle Nazioni Unite, delle sue agenzie, e dei Tribunali internazionali, i governi ,con interventi di unità militari equiparate a “navi da guerra”, possano procedere con violenza ancora maggiore a disapplicare le Convenzioni internazionali e gli obblighi di soccorso e di salvaguardia delle persone in fuga da paesi terzi o di transito, che in assenza di aggiornati parametri oggettivi non si possono definire sicuri se non per convenienza politica. Del resto proprio in materia di contrasto dell’immigrazione cd. “illegale” si sono sperimentati da anni accordi bilaterali o multilaterali che hanno svuotato tanto il diritto di asilo che gli obblighi di soccorso imposti agli Stati dalle Convenzioni internazionali. La difesa dei confini, evocata ancora di recente dalle autorità italiane, è diventata più importante della salvaguardia della vita. Perchè sotto questo profilo non esiste più il principio di uguaglianza tra gli esseri umani. Non ci sono più persone, ma numeri da conteggiare per dimostrare la (presunta) efficacia delle politiche contro l’immigrazione illegale, spesso l’unica via di fuga che rimane per chi cerca protezione.
In questa prospettiva, le nuove ipotesi di reato che si profilano con il disegno di legge siciurezza per i comandanti delle navi umanitarie impegnati in attività di ricerca e soccorso in acque internazionali, seppure possano risultare in violazione con i principi di garanzia delle persone affermati nelle Convenzioni internazionali, a partire dal diritto di chiedere asilo in un paese sicuro e dagli obblighi di soccorso in mare, potrebbero costituire un ulteriore freno alle attività di salvataggio delle ONG, produrre altre vittime, da nascondere come “effetti collaterali”, ed alimentare altre campagne di disinformazione per la conquista di consenso elettorale attraverso la criminalizzazione dei soccorritori, oltre che delle persone soccorse.
Il 16 dicembre 2024 Michael O’Flaherty, il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, ha inviato una lettera al presidente del Senato Ignazio La Russa in cui chiede di non approvare il “ddl Sicurezza”, Non è stato rilevato come anche le norme previste per inasprire la sanzione dei reati di resistenza e violenza a navi da guerra contribuiscano a rilanciare la criminalizzazione dei soccorsi umanitari con l’obiettivo di rendere sempre più discrezionali, da parte delle autorità militari italiane, le attività di controllo sulle navi del soccorso civile che continuano ad opeare attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. La finalità ultima che si persegue consiste nell’allontanamento delle navi umanitarie per lasciare campo libero all’intervento delle motovedette libiche o tunisine, anche a costo di ritardare i soccorsi, causare altre vittime in mare, e favorire deportazioni verso i campi di detenzione controllati dalle milizie libiche colluse con i trafficanti.
La prossima attuazione dei Regolamenti e delle Direttive introdotti lo scorso anno dall’Unione europea con il Patto sulla migrazione e l’asilo, che si vorrebbe anticipare ai prossimi mesi, sarà un banco di prova per il mantenimento di una tutela effettiva dei diritti umani delle persone in movimento di fronte alla esternalizzazione dei controlli di frontiera. L’aumento della discrezionalità rimessa alle forze di polizia nei controlli delle frontiere marittime tende anche a sottrarre a qualsiasi verifica le modalità di intervento nel contrasto della cd. immigrazione illegale via mare. Rimane per questo fondamentale la tenuta degli organi giurisdizionali sul richiamo alle Convenzioni internazionali, in base al sistema gerarchico delle fonti normative tracciato dagli articoli 10 e 117 della Costituzione, e la loro indipendenza rispetto alle pressioni sempre più violente che arrivano dal governo, e anche da potenti alleati esteri. Al punto che si profila addirittura una riforma della magistratura in chiave punitiva, per sterilizzare le attività di controllo sui provvedimenti in materia di trattenimento amministrativo, di espulsioni e di respingimenti. Come dimostra tutto il pacchetto di misure repressive contenute nel Disegno di legge sicurezza, non si tratta più di fronteggiare provvedimenti isolati, che possono essere anche stoppati dall’intervento dei tribunali, ma di un attacco organico a tutti i principi cardine dello Stato di diritto. Non si risolvono i problemi sociali, ma si aumentano reati e pene, anche per contrastare con maggiore energia qualsiasi manifestazione di dissenso. Con il rischio, se non ci sarà una resistenza civile su vasta scala, a partire da una fuoriuscita dall’astensionismo, che prevalga anche in Italia una sorta di dittatura della maggioranza, con la definitiva trasformazione, di fatto, del nostro residuo assetto costituzionale in una democrazia illiberale.