Al termine della prima guerra mondiale, la rapida emersione dei movimenti totalitari e la diffusione della dottrina nazionalista resero illusorio ogni tentativo di unificazione politica dell’Europa. Nel 1918, dalle colonne del Corriere della Sera, Luigi Einaudi aveva stigmatizzato la progettata Società delle Nazioni, considerata inadeguata a risolvere i problemi indotti dall’anarchia internazionale, nella quale versavano ancora gli Stati nazionali. Inutili, inoltre, si sarebbero rivelati due tra i progetti federalisti più noti: l’Unione pan-europea (dalla quale si sviluppò la proposta di Unione europea presentata nel 1929 da Aristide Briand alla decima Assemblea generale della Società delle Nazioni) e la Federal Union del 1938 (sostenuta dalla Scuola federalista inglese). L’idea di conferire all’Europa un ordine politico su base federale sarebbe, però, tornata in auge un paio di anni dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando una nutrita schiera di uomini e donne si ritrovò a resistere contro l’oppressore nazifascista e a riflettere sui destini del Vecchio Continente.
È in questa prospettiva che trovava collocazione il Manifesto di Ventotene: redatto nel 1941 da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, esso gettò le basi per la nascita del Movimento federalista europeo (MFE) e seppe imprimere alla discussione intorno all’assetto federale dell’Europa «una svolta», ponendosi quale (radicale) «programma di azione»: così Norberto Bobbio. Le alterne vicende della Guerra fredda purtroppo fecero il resto. Nel senso che – come ha scritto Pietro Graglia – il termine «europeismo» divenne rapidamente sinonimo di «atlantismo» e lo sforzo di trovare soluzioni sul piano istituzionale si infranse contro la realtà dei fatti: per ragioni di carattere geopolitico, espresse prima dal timore dell’espansionismo sovietico a Ovest e subito dopo dalla (più apparente che reale) situazione di distensione internazionale determinatasi a seguito di alcuni accadimenti storici rilevanti (la morte di Stalin, il governo Pella che successe al governo De Gasperi; l’armistizio di Panmunjeom; ecc.), la fede cieca nell’internazionalismo decretò la morte di quell’antico ideale; cosicché, la prospettiva di dar vita a un nuovo soggetto politico – che fosse in qualche modo autonomo e indipendente sullo scenario mondiale – restò confinata entro i margini di una soluzione tutta economica. Condizionata dal Piano Marshall, essa si concretizzò nella nascita di una prima Comunità europea (la CECA) informata non già al federalismo, ma al funzionalismo: in questa prospettiva, può essere letto anche il fallimento di due progetti marcatamente federalisti (perché implicantisi l’un l’altro): quello della Comunità europea di difesa e quello della Comunità politica europea. Quale differenza corra tra i due modelli ce lo ha insegnato la storia del processo di integrazione europea. Quello federalista – lo sottolineò con forza Piero Calamandrei – ha strette implicazioni con il costituzionalismo, nel senso che trattasi di una soluzione politica; pur avendo al suo centro lo Stato, essa finisce per porre in discussione non già la sovranità in sé, ma l’esercizio dello Staatsgewalt, cioè la potestà di governo. Del resto, è questo il senso che può ricavarsi dall’art. 11 della nostra Costituzione: l’Italia acconsente a limitazioni di sovranità necessarie a dar vita a organizzazioni internazionali che si prefiggano il raggiungimento della pace e della giustizia tra le Nazioni. Il funzionalismo, invece, no: esso non ha alcuna implicazione con il costituzionalismo, sebbene in modo strisciante finisca per spiegare i propri effetti sulle Costituzioni degli Stati membri. Procedere a una integrazione (settoriale) delle economie degli Stati membri vuol dire comunque incidere sul modello economico accolto dalle Costituzioni del dopoguerra: ce lo ha spiegato sul finire degli anni ’50 il giurista tedesco Ulrich Everling; e ce lo ha finanche dimostrato la vicenda politica del Portogallo e della Spagna, che solo nel 1986 poterono aderire al processo di integrazione. In breve, la partecipazione al processo di integrazione (o la richiesta di adesione allo stesso) avrebbe presupposto il mantenimento di un modello economico che avesse al suo centro il mercato (e la libera concorrenza). Non, dunque, la libertà e la democrazia per se stesse (come sarebbe stato se si fosse optato per il modello federale), ma le libertà economiche (di circolazione delle persone, delle merci, dei capitali e dei servizi) in quanto funzionali al mercato. Certo, per almeno due ragioni può comunque tributarsi un sentito grazie alle Comunità europee di ieri e all’Unione europea di oggi: per aver rafforzato la tutela dei diritti fondamentali (ma il grazie andrebbe indirizzato anzitutto alla Corte di giustizia) e per aver saputo elaborare una politica ambientale degna di questo nome. Troppo poco, in verità.
Con la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, gli Stati membri sottoscrissero il Trattato di Maastricht (1992) e si illusero che in questo modo l’Europa potesse fare un salto di qualità. Successivamente siglarono il Trattato di Amsterdam e il Trattato di Nizza, approvarono la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, fecero fallire la c.d. Costituzione europea e vararono il Trattato di Lisbona. All’approfondimento (politico) essi preferirono l’allargamento (a Est). E quando la crisi finanziaria ed economica li travolse, sottoscrissero il Fiscal Compact, puntarono sulla stabilità (e non sulla crescita) e misero in ginocchio la Grecia. Così, in assenza di politica, e attraverso il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, l’Unione finì per chiedere agli Stati membri di tagliare la spesa pubblica e mise becco nelle decisioni politiche nazionali: dalle infrastrutture energetiche al mercato del lavoro, pressocché su tutto.
Nel 2020 il Covid-19 sembrò cambiare i destini dell’Europa. A partire dall’Accordo di Parigi del 2015 e dall’Agenda 2030 dell’ONU, l’Unione europea mise a punto una propria strategia, sviluppata attraverso il Green Deal europeo (2019), cui, dopo lo scoppio della pandemia, si sarebbe ricollegato il Next Generation EU (2020). In questo modo, la Commissione riorientò «il processo di coordinamento macroeconomico del semestre europeo per integrarvi gli obiettivi di sviluppo sostenibile, al fine di porre la sostenibilità e il benessere dei cittadini al centro della politica economica e rendere l’Agenda 2030 fulcro della definizione delle politiche e degli interventi dell’UE». Per parte sua, l’Italia intervenne con una serie di atti e, tra questi, il PNRR (ove si indicava la transizione ecologica come Rivoluzione verde e come una delle sei missioni da realizzare, destinandovi il 37% dei fondi disponibili). Infine, venne la guerra. Il conflitto russo-ucraino avrebbe mostrato quanto fragile fosse l’Unione europea: un autentico colosso dai piedi di argilla. Priva di una politica energetica propria (nonostante l’art. 194 TFUE), priva di una difesa comune europea (nonostante la Politica di sicurezza e di difesa comune disciplinata dal TUE), priva della politica tout court.
E con questo arriviamo ad oggi. La presidente della Commissione europea ha avanzato una proposta di riarmo europeo: un piano articolato in cinque punti, contenuto in una lettera di appena cinque pagine. L’idea è la seguente: occorre sospendere il patto di stabilità interno in relazione alla spesa pubblica effettuata nel settore della sicurezza e della difesa. E questo perché un aumento della spesa per la difesa dell’1,5 per cento del PIL sarebbe in condizione di generare 650 miliardi di euro in quattro anni. A ciò si aggiungerebbe un prestito di 150 miliardi reperiti attraverso il mercato, e cioè emettendo titoli europei. In breve, 800 miliardi di euro per il riarmo degli Stati, e cioè una marea di soldi per potenziare i sistemi di difesa anti-aerea, anti-droni, di difesa informatica e cibernetica, oltre che per acquistare missili e munizioni, in modo da aiutare anche l’Ucraina con rifornimenti di artiglieria.
Insomma, l’Europa al contrario. Eravamo partiti dalla pace e siamo arrivati alla guerra; avevamo pensato che il processo di integrazione europea potesse contribuire a contrastare l’imperialismo degli Stati e la situazione di anarchia internazionale che aveva trascinato l’Europa in guerra e siamo tornati alla volontà di potenza e al disordine globale. Eppure ce lo avevano spiegato a chiare lettere Lord Lothian, Lionel Robbins e William Beveridge: che la guerra trae sempre alimento dalla «assenza di una legge» volta a disciplinare i rapporti tra le nazioni. Di qui il loro monito: occorre agire sulle sovranità nazionali e dar vita a una autentica Federazione: non già a una Confederazione di Stati e neppure a uno Stato mondiale unitario, bensì agli Stati Uniti d’Europa. Settantacinque anni, però, non sono evidentemente bastati. E anzi stanno a provare come l’Europa sia ormai divenuta una espressione geografica o, se si preferisce, solo un breve intervallo tra due guerre. E niente più.