In principio erano 349. Dopo due anni, sono diventati 363 i voti su cui può contare la maggioranza in Parlamento: esattamente i tre quinti dei componenti delle Camere riunite in seduta comune, vale a dire il quorum richiesto, dopo il terzo scrutinio, per eleggere i giudici costituzionali. Bingo!
Nell’assoluta indifferenza sulla sesta fumata nera delle Camere, in dieci mesi, consumatasi martedì scorso, la premier Giorgia Meloni – che a gennaio aveva rivendicato la sua prerogativa di “dare le carte” nella partita sulla Corte costituzionale – mette a segno un risultato senza precedenti, che va persino oltre le sue aspettative ma che rappresenta, potenzialmente, un colpo mortale per il buon funzionamento della democrazia costituzionale poiché vanifica una delle condizioni poste dai costituenti per garantire la piena indipendenza della Consulta, e cioè che le scelte sui giudici di derivazione politica siano sottratte alle maggioranze dei governi di turno e siano invece frutto di ampie convergenze parlamentari. Scelte politiche alte, dunque, non “soldatini” di parte politica.
L’elezione di un giudice costituzionale deve seguire criteri che hanno a che fare soprattutto con cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio. Di qui i quorum elevatissimi, due terzi nelle prime tre votazioni e tre quinti nelle successive, per favorire la più ampia convergenza politica. Ma oggi la maggioranza potrebbe farcela da sola, fin dalla prossima seduta, che il presidente della Camera Lorenzo Fontana, mantenendo la promessa di convocazioni settimanali, ha fissato per martedì 24 settembre.
Vediamo i numeri. Il quorum da raggiungere è di 363 voti. Quanti ne ha la maggioranza? Alla Camera 238, quanti sono i deputati di FdI (117), di Fi (47), di Lega (65) e di Noi moderati (9), ai quali vanno però aggiunti 4 voti di altrettanti deputati del gruppo Misto eletti nelle file della maggioranza ma poi fuoriusciti, che verosimilmente voterebbero insieme (Cesa, De Bertoldi, Gallo, Minardo). E siamo a 242, che diventano 243 con Mara Carfagna, in transito da Azione a Nm. Passiamo al Senato. Qui i senatori di maggioranza sono formalmente 118 ma è verosimile che ai loro voti se ne aggiungano due del gruppo Misto(Gelmini e Versace). Pertanto, tra Camera (243) e Senato (120), il totale è appunto di 363 voti. Che, peraltro, salirebbero a 371 con quelli, altamente probabili, del gruppo delle Autonomie. Il condizionale è d’obbligo perché, al di là delle assenze, il voto è segreto e ci sono sempre sorprese (da ambo le parti). Inoltre, i presidenti delle Camere di norma non votano. Ma il dato numerico resta ed è inquietante sia per la postura governativa sia per l’instabilità politica che porta a continui cambi di casacca sia, soprattutto, per le ricadute istituzionali, ora sull’elezione dei giudici costituzionali ma in prospettiva su quella del presidente della Repubblica e sull’approvazione delle riforme costituzionali.
Certo è che il ritardo del Parlamento – stigmatizzato a luglio dal Presidente della Repubblica che ha parlato di grave “vulnus” – si è rivelato una strategia politica vincente, che l’opposizione non ha contrastato in modo adeguato anche di fronte all’opinione pubblica. Se nella maggioranza si troverà l’accordo su un nome, non ci sarà neppure più bisogno di prolungare la melina fino a dicembre – quando scadranno il presidente della Corte Augusto Barbera e i vice Franco Modugno e Giulio Prosperetti – come voleva Meloni per confezionare un “pacchetto” di quattro giudici da spartire tra i suoi, lasciandone (forse) uno all’opposizione. Il quindicesimo giudice potrebbe arrivare nelle prossime settimane mentre per la sostituzione dei tre uscenti a dicembre bisognerà aspettare – tra sessione di bilancio, vacanze di Natale e quorum di due terzi per i primi tre scrutini – fine febbraio. Un quadro che impone di mantenere accesi i riflettori. Non dimentichiamo che, là dove le democrazie scivolano nelle autocrazie, il primo passo è la “cattura” delle Corti costituzionali, a cominciare dalla nomina dei giudici. E se il sistema italiano è più garantito di altri (dei 15 giudici, 5 sono scelti dal Parlamento, 5 dal Quirinale e 5 dalle supreme magistrature), basta gettare lo sguardo al Messico e alla sua recente riforma della giustizia – solo per citare l’ultimo caso, tra i tanti in Europa e nel mondo – per renderci conto che la “cattura” delle Corti è davvero un attimo.