Il rapporto Oxfam diffuso nei giorni scorsi scrive che “I dieci uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato il loro patrimonio da 700 a 1500 miliardi di dollari, al ritmo di 15.000 dollari al secondo o 1,3 miliardi di dollari al giorno, durante i primi due anni di una pandemia che ha visto diminuire il reddito del 99% dell’umanità e oltre 160 milioni di persone in più si sono ridotte in povertà.
Mettendo per un attimo da parte il problema morale di questa oscena disuguaglianza, riflettiamo sul fatto che il successo dei vari Berlusconi, Trump e Zuckerberg è il sintomo di una trasformazione dei sistemi politici liberali, di un decadimento dei partiti politici tradizionali e di un mutamento in senso oligarchico e autoritario delle democrazie contemporanee. Il golpe tentato da Trump un anno fa per restare al potere a Washington, benché dilettantesco, era non di meno un colpo di stato che ha sfiorato il successo.
Se guardiamo alla politica moderna, con le sue costituzioni basate sulla divisione dei poteri, in un’ottica di lungo periodo essa è stata un territorio riservato agli specialisti. Benché i delegati all’assemblea costituente di Filadelfia del 1787 fossero ricchi, alcuni di loro molto ricchi, essi erano innanzitutto leader politici. I padri fondatori degli Stati Uniti non elessero presidente Robert Morris, il finanziere della guerra d’Indipendenza, né diedero ai grandi proprietari di schiavi (George Mason, John Rutledge, Pierce Butler, Charles Pinckney) un ruolo prominente nell’elaborazione del testo costituzionale, opera principalmente di James Madison, James Wilson, Gouverneur Morris. Nei 233 anni successivi gli americani hanno eletto alla presidenza una lunga lista di generali (da George Washington a Ulysses Grant e Dwight Eisenhower), hanno mandato alla Casa Bianca un gran numero di laureati in legge, tra cui Abraham Lincoln, Bill Clinton e Barack Obama, ma tutti costoro erano anche senatori o governatori, in ogni caso politici di professione.
Lo stesso è avvenuto in Italia: tra i predecessori di Berlusconi come capo del governo troviamo solo politici di carriera: Craxi, Andreotti, Moro, Fanfani, fino a De Gasperi e, prima del fascismo, Giolitti, Zanardelli, Crispi, perfino il generale Pelloux ma nessun Armani, Caltagirone, Agnelli o Pirelli. Alla presidenza della Repubblica sono stati eletti soltanto statisti, da Einaudi a Mattarella passando per Napolitano e Pertini, non industriali come Giovanni Ferrero o Leonardo del Vecchio.
In Gran Bretagna, occasionalmente, un milionario è diventato ministro (Max Aitken, poi diventato Lord Beaverbrook) ma i primi ministri, dal duca di Wellington in poi, sono sempre stati politici di carriera. In Francia è accaduto spesso che i governi si mettessero al servizio della grande finanza, ma Clemenceau o de Gaulle venivano dalla strada (o dalle trincee), non dai castelli delle 200 famiglie più ricche del paese.
Il fatto che si parli seriamente di eleggere Berlusconi alla presidenza della Repubblica è la prova non solo della miseria intellettuale e morale del ceto politico che ci governa ma, più in generale, del fatto che in Europa le élite che avevano guidato i giochi politici dal 1945 in poi stanno perdendo il controllo della situazione, sono investite da un’ondata di scontento popolare senza precedenti dopo il 1968.