Tra le più sensate tesi a sostegno del Sì al taglio dei parlamentari c’è un ragionamento: la riforma in ultima lettura è stata approvata con una maggioranza larghissima, praticamente all’unanimità, dalla Camera. E quindi “votare No aggraverebbe il sentimento di sfiducia che già esiste nei cittadini verso le istituzioni”. Parola di Valerio Onida, presidente emerito della Consulta.
Che subito, sulla questione del rapporto tra riforma costituzionale e legge elettorale, chiarisce: “Il numero dei componenti da eleggere è indipendente dal sistema elettorale, e viceversa. È chiaro che riducendosi il numero complessivo degli eletti si alza la cosiddetta ‘soglia implicita’, cioè aumenta il numero di elettori che sono necessari per eleggere un parlamentare. Vorrei sottolineare, per coloro che sono preoccupati per le sorti del principio di rappresentanza, che da anni quando si discute di legge elettorale si sente parlare di correttivi che favoriscano la governabilità, i quali incidono sul principio di rappresentanza assai più del numero di parlamentari”.
Professore, è stupito dai ripensamenti dell’ultima ora di molti parlamentari che hanno votato Sì e oggi si dicono contrari? E perché si vuole riproporre ora il meccanismo del 2016, quando la sorte del governo era legata a doppio filo all’esito del referendum sulla riforma Renzi-Boschi?
Mi pare che i ripensamenti siano dovuti a considerazioni di opportunità politica, che nulla hanno a che vedere con il merito della riforma in sé. C’è chi spera nella fine di questo esecutivo, chi no; c’è chi detesta i 5S “antropologicamente” e non vuol sentire parlare di nulla che arrivi da quella parte Ma sono tutte cose che non interessano il merito della riforma.
Lei dice: la rappresentanza non è un problema di quantità.
In un Paese con 50 milioni di elettori il fatto che gli eletti siano 300 in più o in meno poco cambia.
Parliamo di qualità, allora. Il giudizio sull’efficienza delle Camere e la qualità dei parlamentari è unanimemente pessimo. Per non dire della scarsa fiducia dei cittadini.
Parliamone pure, ma nulla c’entrano le riforme costituzionali o le leggi elettorali Il punto centrale qui è la qualità degli organismi intermedi, cioè dei partiti e delle grandi organizzazioni sociali. Se avessimo partiti forti, il rapporto di fiducia tra elettori ed eletti sarebbe assicurato dalla consonanza di valori. Invece oggi la militanza e il voto spesso si esauriscono nel seguire un leader, il rapporto fiduciario non riguarda i valori o i programmi, ma la persona del leader di turno. È un problema complesso, che investe il sistema politico.
Lei dice: dopo l’approvazione della riforma non sono necessari correttivi. Si obietta, per esempio, che il lavoro delle Commissioni sarà infernale o addirittura impossibile, specie in Senato.
Ma si può organizzare il lavoro in un minor numero di commissioni o assegnare gli stessi parlamentari a più commissioni; si può ad esempio ricorrere di più a commissioni bicamerali, e ridurre la lunghezza dei dibattiti in aula. Di per sé, un Senato di 200 membri può lavorare benissimo!
E le maggioranze necessarie per le votazioni degli organi istituzionali?
Qui contano semmai le maggioranze qualificate prescritte. Quanto alla composizione dell’assemblea comune che elegge il presidente della Repubblica, il fatto che il peso dei rappresentanti delle Regioni (tre per ogni Regione, salvo che per la Valle d’Aosta, indipendentemente dalla dimensione della Regione) proporzionalmente aumenti non è affatto un inconveniente. I costituenti hanno voluto per l’elezione del presidente una base più ampia di quella parlamentare, proprio perché si tratta di eleggere colui che rappresenta l’unità della nazione: e la previsione dei rappresentanti regionali, eletti in modo da assicurare la rappresentanza delle minoranze, prescindeva dal numero dei parlamentari, che fra l’altro all’inizio non era fisso ma destinato a variare in rapporto alla popolazione.
Ci sono altre riforme costituzionali secondo lei necessarie?
La modifica introdotta con la legge ora sottoposta a referendum non ha nulla a che fare con le più ampie prospettive di eventuale riforma del Parlamento, come il possibile ripensamento del cosiddetto bicameralismo paritario, ad esempio riservando alla sola Camera il voto di fiducia al governo a affidando al Senato solo il concorso nella deliberazione delle leggi. Che il sistema di elezione del Senato sia poi “a base regionale”, è un elemento su cui non interverrei, poiché si tratta appunto di far sì che il Parlamento esprima in qualche modo anche il sistema delle autonomie regionali. Allo stato attuale, varrebbe invece la pena di parificare le condizioni per l’elettorato attivo e passivo nelle due Camere, perché l’idea originaria di un Senato come “Camera degli anziani” non ha più molto senso.
Il Fatto Quotidiano, martedi 8 settembre 2020