I paradossi del debito e la riforma dell’UEM

07 Giugno 2020

Sul debito e sulla riforma dell’Unione Economica e Monetaria si discute molto. Orientarsi sui problemi che pongono dovrebbe servire al nostro Paese per scegliere una direzione in cui muoversi, tra le molte che vengono proposte, a volte con sconcertante sicurezza, semplicismo e superficialità; a volte invece in modo serio e meditato. Terrò presenti, in particolare, due interessanti saggi recenti, quello di Paolo Bosi: “Il debito italiano in Europa: un problema mal posto”, il Mulino, 2/2020, e quello di Roberto Artoni: “C’è bisogno di più Stato (sociale)”, Sinistrainrete, 27 V 2020. Secondo Bosi, il problema del debito esiste e va affrontato con calma e freddezza, ma non dovremmo lasciare che alteri le nostre priorità; e quali siano le nostre priorità viene proposto da lui e indipendentemente, ma concordemente, da Artoni: il rafforzamento e l’estensione del nostro Stato sociale.

Molti di noi sono pieni di risentimento nei confronti dell’UEM (Unione Economica e Monetaria): l’austerità a cui ci ha vincolato ci avrebbe impedito di continuare a mantenere in buone condizioni il nostro Sistema Sanitario Nazionale, i nostri edifici pubblici, le nostre scuole, sicché allo scoppio della pandemia da coronavirus ci saremmo trovati indeboliti di risorse umane, scientifiche e materiali. Non dovremmo lasciare che anche in futuro le assurde imposizioni del Patto di Stabilità e Sviluppo ci impediscano di compiere tutti gli investimenti pubblici di cui abbiamo e avremo bisogno. Basta andare a piAtire ogni anno un punto o mezzo punto in più di deficit a Bruxelles! Queste sono ormai opinioni largamene condivise, anche da persone, come Bosi e Artoni, che non condividono invece le conseguenze che ne traggono i famosi “sovranisti”: l’uscita dall’euro, ossia dall’Uem, permettendoci di riacquistare la sovranità monetaria ci consentirebbe il finanziamento monetario di ogni deficit pubblico, dunque l’entrata in un mondo fantastico in cui non ci sarebbe alcun limite alla soddisfazione dei nostri bisogni e desideri, pubblici e privati: senza più doverci preoccupare delle imposte, rese obsolete ed inutili. Un mondo fantastico l’entrata nel quale sarebbe annunciata da una nuova raffica di mega-condoni, non solo tributari e contributivi, ma anche urbanistici e ambientali: a ricordare che il nostro “sovranismo” è alquanto selettivo, e conserva l’insofferenza anarcoide per lo Stato, per un qualsiasi Stato, della berlusconiana Casa delle Libertà.

Un primo paradosso del debito sta nel fatto che da un lato siamo stati e tuttora siamo affamati di deficit pubblico, dall’altro abbiamo accumulato un debito imbarazzante e paralizzante. Ci troviamo in ginocchio esattamente per questo. Gli altri paesi europei non avranno difficoltà ad affrontare l’inattesa contrazione produttiva causata dalla pandemia da coronavirus impeccabilmente con delle spese in deficit finanziate emettendo titoli sul mercato internazionale o addirittura (nell’UK) moneta. Noi abbiamo bisogno di essere soccorsi perché la nostra posizione sul mercato è debole, come evidenziato dall’esistenza del famoso “spread”. Alcuni (ad esempio Varoufakis) pensano che abbiamo bisogno non di prestiti ma di liberazione dall’indebitamento, con dei puri trasferimenti dal resto del mondo a noi. Forse Varoufakis confonde la Grecia di 10 anni fa con l’Italia, che al contrario della Grecia ha sempre avuto un disavanzo primario positivo (ossia il suo bilancio pubblico sarebbe in avanzo se non dovessimo pagare gli interessi sul debito.) Come che sia, In forza dell’essere ritenuti almeno da alcuni vicini all’insolvenza, chiediamo al resto dell’Europa dei sussidi. Se anche riuscissimo a ottenerli questa volta, con tutta probabilità sarà l’ultima. La pressione che stiamo facendo sulle istituzioni dell’UEM è esattamente il male (per l’UEM) che la nostra osservanza dei “parametri di Maastricht” le avrebbe e ci avrebbe evitato.

Il secondo paradosso segue dalle prescrizioni di Bosi-Artoni: alla ripresa, con un Pil ipotetico pari a quello del 2019, ci ritroveremo con un rapporto debito/Pil di oltre il 150%, e vogliamo essere liberi di spendere per il nostro Stato sociale più di prima: seguendo Bosi e Artoni, molto più di prima: ma come faremo? Forse un’indicazione viene dall’osservazione che il rapporto spesa pubblica/Pil non è in Italia particolarmente elevato: di poco inferiore al 49%. Nel 2018, la Francia viaggiava sul 55%, con un deficit in rapporto al Pil maggiore del nostro. La Danimarca e la Svezia erano sul 51%, ma con lievi avanzi di bilancio. Come fanno? Ricordiamoci che il famoso regista Ingmar Bergman, da noi tutti ammirato, si lamentò ripetutamente di

essere oggetto di un intollerabile spionaggio fiscale e persecuzione in uno Stato ormai divenuto, a suo dire, di polizia. Finì anche lui, come Bjorn Borg, per trasferirsi ingloriosamente a Montecarlo; per non parlare della farsa di Gerard Depardieu, che prima dalla Francia si trasferì in Belgio, poi chiese e ottenne da Putin rifugio in Russia. Dunque una via per il consolidamento dello Stato sociale c’è: molte più tasse in permanenza, o fine della tolleranza per l’evasione fiscale. Seguendo le indicazioni di Bosi e Artoni, potremmo benissimo arrivare a una spesa pubblica complessiva del 55% o 60% del Pil. Ha significato e motivazione economica: un paese che usa le sue risorse principalmente per soddisfare i bisogni collettivi della sua popolazione risolve anche, in parte, l’esigenza di una maggior equità distributiva e mobilità sociale. Bisognerebbe allora accettare di incanalare nel gettito fiscale tale percentuale del Pil. E starà alla Scienza delle Finanze, di cui i professori Bosi e Artoni sono maestri, di trovare il regime fiscale meno incompatibile con l’incentivazione alla produzione e all’investimento.

Il terzo paradosso del nostro debito sta nel fatto, giustamente richiamato da Bosi, che esso è solo in piccola parte debito verso l’estero. La nostra posizione netta verso l’estero è quasi nulla. Del resto, come egli ricorda, abbiamo da parecchi anni un avanzo nelle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Cediamo all’estero un maggior valore di beni e servizi di quanto ne assorbiamo dall’estero. Può darsi che siamo forzati a questo dalla Germania: può darsi che, come ricorda Bosi, questo sia dovuto esclusivamente al fatto che operiamo a sotto-utilizzazione di tutti i nostri fattori produttivi. Quali ne siano le cause, non è affatto vero che “viviamo al di sopra dei nostri mezzi”! Quando l’ex ministro Paolo Savona scoprì questo, fu per lui come un’improvvisa illuminazione, e ne informò subito la Signora Merkel, che nel decennio precedente aveva spesso predicato che la Germania, come la massaia sveva, teneva i conti in ordine, e cioè, cercava di non andare nella spesa oltre i propri introiti, e che così, secondo lei, avrebbe dovuto fare anche l’Italia. Lei fu incredula e sconcertata. Come quasi tutta la gente che non scrive di Economia, e magari anche una parte di quella che ne scrive.

Quello che molta, troppa gente, non sa è che ci sono nella contabilità nazionale di un paese due saldi, quello con l’estero e quello tra settore privato e settore pubblico. Che rapporto c’è tra questi due saldi, se vogliamo, tra questi due deficit? Secondo alcuni, si tratterebbe di “deficit gemelli”. Gemelli peraltro disuguali. Sarebbe il deficit pubblico a esercitare un’influenza causale sull’altro. Sospetto che parecchi economisti tedeschi lo credano. Ma l’Italia degli ultimi 10 anni smentisce questa supposta regolarità empirica. Dove Savona non riuscì a convincere nessuno fu quando sembrò suggerire che fosse possibile trasferire risorse dall’avanzo delle partite correnti al deficit pubblico. Questo con i normali strumenti della politica monetaria e/o fiscale non si può fare. Allo stesso modo, davvero paradossalmente, un paese può essere stato per in anni in avanzo con le sue partite correnti della bilancia dei pagamenti e risultare insolvente. Infatti questo dipende dalla sua posizione nel mercato internazionale dei titoli pubblici, dove deve in primo luogo sembrare solvente. E lo sembrerà se riuscirà a soddisfare tre condizioni di pari importanza: 1) se il suo Pil sta crescendo, cosa che garantirebbe che anche il suo gettito cresca; 2) se gli interessi sul debito non rappresentano una fetta esageratamente grande del gettito; infine, 3) se si dimostra capace e determinato a raccogliere le imposte dovute. Il nostro paese è in grave difficoltà rispetto alla prima (il Pil è in una sorta di ristagno ormai da più di vent’anni), in una certa difficoltà rispetto alla seconda (il Commissario all’economia della passata Commissione europea Pierre Moscovici fece notare nel 2017 che i pagamenti di interessi dell’Italia eccedevano la spesa totale per l’istruzione pubblica), in una posizione quasi vergognosa per la terza, a causa dei continui condoni e della legislazione che in alcuni casi incoraggia e premia invece di dissuadere e penalizzare l’evasione.

Dunque, il deficit pubblico cronico, con il conseguente accumularsi del debito, sono l’effetto di una qualche non ben esplorata configurazione o congiunzione domestica: di che cosa si tratta? Beh, in prima approssimazione non c’è equilibrio tra le reciproche prestazioni. Il settore privato (imprese e famiglie) ottiene dal pubblico beni e servizi per un valore maggiore di quello che esborsa. Naturalmente le transazioni tra i soggetti appartenenti ai due settori sono in gran parte non di mercato. Ma gli enti che costituiscono il settore pubblico possono far fronte ai loro costi con la tassazione. A rigore, secondo la concezione keynesiana la variazione nel deficit del bilancio pubblico dovrebbe essere anti-ciclica, in modo da fungere da stabilizzatore automatico. Lungo un intero ciclo, il bilancio in media dovrebbe essere in pareggio. E persino un vecchio e un nuovo articolo della nostra Costituzione così vorrebbero. Ma così non è stato dai governi di Berlusconi in poi. Il settore privato ha vissuto in un confortevole stato di parassitismo nei confronti del pubblico, accumulando una rilevantissima ricchezza privata, sia finanziaria, sia reale. Ecco dove sta la singolare congiunzione: mentre il settore pubblico si impoveriva, quello privato si arricchiva enormemente. In un suo recente informativo articolo: “Basta trasferimenti alle imprese: servono investimenti pubblici”, il Manifesto, 12 V 2020, Pierluigi Ciocca ci ricorda che “La categoria ‘famiglie’ dei conti finanziari – che comprende gli averi dei proprietari dei 4,4 milioni di imprese nostrane (in media con meno di quattro addetti, il bar all’angolo) – possedeva alla fine del 2017 un patrimonio netto di 9,7 trilioni di euro (per il 54% “reale”, per il 46% “finanziario”), pari a quasi quattro volte il debito pubblico e oltremodo concentrato (l’indice di Gini nel 2016 era stimato in 0,61). Nonostante il ventennale ristagno dell’economia, in rapporto al reddito disponibile (8:1) una tale ricchezza resta la più elevata fra i paesi del Gruppo dei 7.” Questa sconcertante congiunzione, che è notoria e certo non incoraggia i cittadini degli altri paesi europei a soccorrerci, è fisiologica o patologica?

Il professor Bosi ha affermato che l’abbondante disponibilità di titoli pubblici con un rendimento sicuro è una buona occasione di risparmio per le famiglie. Ma ora il loro rendimento non è più sicuro, ed è specialmente rischioso che le nostre banche si siano riempite di titoli pubblici, un caso di inutile doppia intermediazione che le lega mani e piedi alla sorte dello Stato e che consente alle banche di non fare il loro lavoro specifico: il credito alle imprese. Questa sembrerebbe ormai davvero diventata la mitica ‘economia di carta che spiazza quella reale’. La congiunzione è patologica.

Passiamo ora a discutere brevemente dei rapporti tra l’Italia e l’Unione europea. L’Italia ne è stata almeno dal 2010 un membro alquanto infelice, sempre in difficoltà ad osservare il Patto di stabilità e di sviluppo. In occasione della crisi del coronavirus, io per me mi sarei rivolto per avere un grosso prestito al Fondo Monetario Internazionale, non all’UEM. Perché il F.M I. ha questo come suo compito specifico, ha l’esperienza, le competenze, la capacità di ricerca, si trova ad affrontare questa crisi in una prospettiva globale, ed è guidato da persone ragionevolmente illuminate, da un lato. Dall’altro non vedevo, come ha dichiarato non solo di non vederlo ma che non c’è la Corte Costituzionale tedesca, il titolo a fare una richiesta di soccorso alla UEM, che, stando a Maastricht, non è uno Stato Federale, ma un’unione di stati che cooperano competendo su mercati il più possibile concorrenziali, in condizioni di stabilità monetaria. In particolare, non è uno Stato, quindi non ha verso i cittadini europei il dovere di un’assistenza di ultima istanza. Tanto è vero che non è uno Stato, che non è neppure un’unione fiscale. E’una struttura fragile e periclitante, alla quale, condivido in pieno l’opinione di Paolo Bosi, l’Italia avrebbe fatto meglio a non aderire, restando, come alcuni paesi saggiamente hanno fatto, nell’Unione economica. (La Danimarca e la Svezia, ad esempio, sono attivi membri dell’Unione Economica ma non dell’UEM.)

Ma, meraviglia delle meraviglie, nessun leader europeo ha risposto a Conte secondo gli innegabili assunti e le limpide argomentazioni della Corte Costituzionale tedesca. Pare essersi formato un consenso nelle classi dirigenti europee che l’obbligo di assistenza di ultima istanza tra i paesi dell’UEM esista. Naturalmente gli economisti e i leader politici tedeschi hanno sempre obiettato che allora andrebbero tutelati i singoli cittadini dell’Unione, non i loro Stati. Già, ma per farlo ci vorrebbe l’Unione fiscale! Dunque, tutto sta sorprendentemente andando per il meglio. Per renderci conto di come l’opinione e l’atteggiamento tedesco sia mutato, basta ricordare che nel suo articolo sul Corriere di Sabato 21 Marzo: “Eurobond, ora si può” Mario Monti dopo aver raccontato che la Signora Merkel gli aveva confidato che con lei al governo mai vi sarebbero state emissioni di eurobond, ipotizzava che tali emissioni fossero ormai in alternativa al mantenimento della Bce nei limiti del suo Statuto: stava alla Merkel solo di scegliere tra le due alternative. Per nostra fortuna, la Bce è andata e sta andando ben oltre, come la Corte Costituzionale tedesca ha segnalato con allarme; e, se la proposta della Signora von der Leyen verrà approvata, avremo anche una variante di eurobond. Non solo. La proposta della Commissione non è improvvisata. Ha una rilevante portata di innovazione dell’architettura istituzionale dell’UEM, configurando, come è stato notato da Mario Monti nel suo percettivo articolo “Il piano europeo e i benefici per l’Italia” sul Corriere del 27 V 2020 (un assoluto must per gli europeisti), un abbozzo di unione fiscale.

*L’articolo del professor Costa sarà pubblicato da lunedì 8 giugno sulla rivista Rivistailmulino.

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