La crisi del 2008 è già dimenticata, in confronto alla realtà di oggi appare agli americani come un semplice raffreddore: tutti i paragoni ormai si fanno con la Grande Depressione iniziata nel 1929 e da cui gli Stati Uniti uscirono di fatto solo a partire dal 1942, grazie alla Seconda guerra mondiale. Nessuno può prevedere gli effetti a lungo termine della pandemia ma possiamo guardare alle cifre: i senza lavoro, secondo gli ultimi dati sarebbero circa 15% ma questo è un dato che sottostima ampiamente la realtà: secondo la Federal Reserve potrebbero essere il 24-25% degli occupati. Nel 1929, quando avvenne il crack di Wall Street, la forza lavoro contava circa 50 milioni di persone e i disoccupati erano 1,5 milioni. Nel 1930 divennero 4,5 milioni, nel 1931 8 milioni e, nel 1932, 12 milioni. Quindi per raggiungere quota 25% della forza lavoro ci vollero due anni e mezzo: questa volta ci siamo arrivati in due mesi.
Vero è che nel 1930 l’amministrazione Hoover non fece granché per alleviare gli effetti del disastro, mentre ora il Congresso sta discutendo il quinto piano di salvataggio dell’economia e la Federal Reserve stampa dollari come fossero banconote del Monopoli, ma tutto questo difficilmente basterà. La quarantena continuerà negli stati più ricchi e popolosi, da New York alla California, quindi l’impatto sui consumi interni sarà particolarmente brutale. Se gli stati rurali a guida repubblicana metteranno fine al lockdown, come vuole Trump, e come sta già accadendo nel Sud in queste ore, è probabile che vengano colpiti da una seconda ondata di contagi che li costringerà a ripristinare le misure di sicurezza, con conseguenze anche peggiori come ha sottolineato qualche giorno fa il premio Nobel Paul Krugman.
La situazione dei contagi è particolarmente grave negli impianti di trasformazione delle carni, in questo momento i luoghi di lavoro più pericolosi in particolare in Iowa, South Dakota e Nebraska. Gli stabilimenti di questo tipo sono luoghi infetti e pericolosi: gli operai lavorano in piedi, fianco a fianco, sulla linea di produzione, la cui velocità è stata aumentata. Anche la durata dei turni giornalieri è stata allungata e le pause non sono state scaglionate, per cui i lavoratori si affollano nella caffetteria senza poter rispettare una distanza minima tra loro. La settimana scorsa erano 4.800 gli operai colpiti dal Coronavirus in 70 stabilimenti in 26 stati americani ma Donald Trump ne ha ordinato la riapertura in quanto “servizi essenziali”. Lo ha fatto invocando una legge di 70 anni fa, varata a suo tempo per garantire la produzione di armi e munizioni durante la guerra di Corea.
Un comunicato dello stabilimento Smithfield di Sioux Falls, in South Dakota, che era stato chiuso dopo aver scoperto che ben 900 lavoratori erano stati contagiati, si limita a spiegare che: “Gli impianti di lavorazione della carni, che sono caratterizzati da una produzione ad alta intensità di manodopera sulle catene di montaggio, non sono progettati per l’allontanamento sociale”.
Gli Stati Uniti avevano registrato, al 13 maggio, circa 85.000 morti per il Covid-19: la decisione di costringere i lavoratori, in particolare le minoranze etniche che fanno i lavori più pericolosi, a tornare negli stabilimenti dividono brutalmente gli americani in due gruppi: quello che ha il potere di controllare la propria esposizione all’epidemia grazie al telelavoro e l’altro, ben più numeroso, costretto a scegliere tra potenziale malattia e collasso dell’economia familiare. In Iowa, i latinos il 6% della popolazione ma sono circa un quarto dei contagiati.
La recessione colpisce in maniera sproporzionata le minoranze etniche che fanno i lavori a contatto con il pubblico: infermieri, baristi, commessi, postini, parrucchieri. Ci saranno effetti devastanti sul reddito e, secondo l’economista William Darity, della Duke University, “le disuguaglianze non potranno che peggiorare”. In particolare saranno colpiti, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo i lavoratori “informali”, i migranti, gli stagionali.
ilbolive.unipd.it, 15 maggio 2020