Perché gli ebrei non sono amati? Perché gli si rimprovera di non essere come gli altri, di incarnare una estraneità irriducibile e minacciosa, dice Delphine Horvilleur, una delle tre rabbine del Movimento ebraico liberale di Francia (più noto per il nome – Conservative – che ha nel mondo anglosassone dove Horvilleur ha studiato), 47 anni, riccioli neri e occhi penetranti, un tempo giornalista a France 2. Dopo i tanti attentati che hanno colpito i correligionari in Europa e soprattutto nel suo paese, come lei ricorda – le recenti uccisioni delle anziane Mireille Knoll e Sarah Halimi per mano di vicini di casa musulmani, il massacro all Hyper Cacher nel 2015, e quello alla scuola a Tolosa del 2012, l’assassinio di Ilan Halimi nel 2006 torturato a morte da un gruppo di giovani islamici, oltre alle innumerevoli aggressioni, intimidazioni individuali e profanazioni di tombe con simboli nazisti – Horvilleur ha deciso di prendere la parola in modo originale e speciale col saggio Riflessioni sulla questione antisemita (Einaudi).
.
Originale perché esplora come l’odio contro gli ebrei può essere interpretato a partire dai testi sacri e da quelli rabbinici. Speciale perché esordisce sottolineando quanto
l’antisemitismo non sia uguale alla xenofobia e al razzismo: gli argomenti che porta sulla differenza tra questa e altre forme d’odio non sono quelli storici (che la persecuzione sia solo in questo caso millenaria, che sia stata tradotta in un’azione di genocidio e tuttora venga minacciata in questo senso dall’Iran) ma di osservazione psicologica: il razzismo, argomenta, esprime avversione all’altro per ciò che questi non ha (lo stesso colore della pelle, la stessa cultura), il suo “non come me” si configura per il razzista come un “meno di me”, e di lì a considerarlo inferiore è un attimo.
.
Per contro, suggerisce, l’ebreo è odiato per quel che ha: lo si accusa di possedere ciò che spetta a noi, potere, denaro, privilegi, e anche del suo contrario, d’essere un rivoluzionario, di camuffarsi o di essere troppo appariscente, di essere minaccia al sistema e anche la sua incarnazione, di volersi assimilare o di volere essere uno Stato altrove, lo si immagina detentore di un surplus di cui priva gli altri, divenendo un elemento di disturbo che devia e intossica il bene comune al punto da interrompere quella totalità a cui le società, soprattutto in crisi, aspirano: l’ebreo eccede, a cominciare dalla sua indistruttibilità (si ostina a non sparire, anzi si ripresenta con uno Stato minuscolo ma giudicato – ricorda Horvilleur – secondo un sondaggio della Commissione Europea del 2003 “la minaccia più grave alla pace del mondo”, più dell’Iran, dell’Iraq, della Corea del Nord… forse perché romperebbe l’integrità del mondo arabo che, senza di esso, sarebbe serena e magicamente riconciliata?, sottolinea ironica).
.
Persino il dolore dell’ebreo è indistruttibile, pensa l’antisemita sovrastato dal primato della sofferenza post-Shoah e incapace di perdonargli il male che gli si è fatto: il passato di oppresso o discriminato che dovrebbe funzionare come una sottrazione, un “meno di me”, diventa paradossalmente un “più di me”, un vantaggio in questa gara di vittimismi identitari minoritari degli ultimi decenni – compreso il femminismo – che gli viene invidiato (interessante l’ultimo capitolo “L’ecceSion ebraica” dedicato a quest’aspetto e a certa sinistra che associa gli ebrei ai dominatori anche quando la loro sicurezza è minacciata, mentre tra tutte le minoranze etniche nega solo agli ebrei la rivendicazione di una sovranità territoriale).
.
Delphine Horvilleur spazia a tutto campo. I capitoli di indagine dei testi sacri sono innovativi, perché pensa all’origine del fenomeno, partendo dall’identità del primo ebreo, Abramo, colui che compie una rottura, lasciando il mondo in cui è nato a seguito della chiamata divina, passando dal debole Isacco, dalla zoppia di Giacobbe e dalla sua lotta con l’angelo, al travaglio dell’uscita dall’Egitto, alla balbuzie di Mosè (tutti manchevoli e difformi questi eroi della Bibbia) per giungere al Libro di Ester, dove il cattivo Aman trama parlando col re Assuero lo sterminio del popolo ebraico esiliato, un popolo “disseminato ma distinto tra i popoli di tutte le provincie…, con leggi diverse da quelle di tutti i tuoi popoli”: una descrizione senza tempo di quelle che sono le accuse rivolte contro gli ebrei lungo tutta la Storia.
.
L’indagine non finisce qui, attraversa il nemico per eccellenza, Amalec, e poi Esaù, il rifiuto del proselitismo che lascia le altre religioni incredule e sospettose verso un’appartenenza esclusiva, il Talmud e i passi in cui descrive i Romani, gli oppressori che hanno distrutto l’antico regno di Israele, e poi ancora cosa hanno detto Sartre o Derrida della questione. Degli antisemiti esce un’immagine livida di rancore, invidia, gelosia, degli ebrei scaturisce un’identità forte, determinata, eppure così inafferrabile agli occhi degli altri.