Da ormai un anno molti commentatori e altri soggetti chiedono conto al PD della sconfitta o, più precisamente, chiedono al PD di dar conto della sua sconfitta con un esame onesto e impietoso delle politiche dei governi da esso guidati, almeno da Renzi a Gentiloni. Molti di quelli che rimproverano al PD di “non aver capito le ragioni dell’insuccesso” parlano come se – loro – le conoscessero benissimo in quanto note ed evidenti a tutti, e sembrano rimproverare al PD più l’ostinazione nel non voler riconoscere l’ovvio che un deficit culturale, o un’incapacità di analisi, o una paralisi di intelligenza politica che dura ormai da un anno. Personalmente, non ho mai pensato che trovare una risposta, per quanto importante e urgente, sia facile. Ma mi pare anche stupefacente che nessuno, nel PD o fuori, abbia mai fatto un serio tentativo in questo senso. Finalmente mi sono imbattuto in un denso librino di Marco Leonardi, Le riforme dimezzate, uscito nell’ottobre 2018, di sole 127 pagine, che forse contiene gli elementi di una risposta.
Apparentemente, il libro è dedicato a un soggetto diverso anche se collegato con l’interrogativo in discussione: a dare un resoconto dall’interno delle politiche sociali dei due ultimi governi. Leonardi ha partecipato all’elaborazione di tali politiche come consigliere economico dei Presidenti del Consiglio, membro di un piccolo ma operoso gruppo di esperti raccolti principalmente dall’Università. Si è occupato principalmente di quattro temi: il Jobs Act e il mondo del lavoro, la questione salariale, le pensioni, le misure di contrasto alla povertà. Sul primo, il governo Renzi ha prodotto una riforma organica del diritto del lavoro, che comprende un sussidio di disoccupazione universale, che, incredibile ma vero, non era mai esistito prima; sul secondo, vi sono stati diversi interventi fiscali sul salario, ad esempio una defiscalizzazione totale dei premi di produttività; sul terzo, due importanti ritocchi alle legge Fornero: l’APE volontario e l’APE sociale; sul quarto, è stato introdotto il reddito di inclusione (REI) colmando un’altra lacuna incredibile ma vera della nostra legislazione sociale: l’Italia non aveva mai avuto una misura universale contro la povertà. In Europa, solo la Grecia ne è sprovvista.
Tutto questo, esposto in dettaglio da uno che aveva la responsabilità, con pochi altri, di mettere a punto e scrivere numerosi decreti attuativi di leggi delega, può essere interessante e affascinante per alcuni, noioso per altri. Non ne parlerò perciò se non indirettamente. I quattro temi sono oggetto di quattro capitoli del libro, che ha inoltre un’utile prefazione di Maurizio Ferrera, un’Introduzione, e un capitolo dedicato alle Conclusioni. Entro certi limiti, le Conclusioni si possono anche leggere come un saggio autonomo, e così farò qui. Infatti nelle Conclusioni l’autore si propone di “analizzare le ragioni di fondo della sconfitta, ma anche i motivi che ci lasciano intravvedere la possibilità di ripresa” e questo compito è svolto con la serietà, lo scrupolo di obiettività che il lettore si è abituato a veder dispiegati nei cinque capitoli precedenti.
“Arrivammo alla campagna elettorale con molti provvedimenti sociali approvati”, dice Leonardi, “ma di cui non si erano ancora potuti vedere i risultati”. Inoltre, la situazione politica era inattesamente cambiata e i temi della campagna elettorale non erano più quelli su cui i governi si erano concentrati: aggiungerei che due di essi erano emersi nel Referendum o almeno da molte interessanti analisi sui suoi risultati: la povertà e il Sud; il terzo, l’immigrazione, era stato in ebollizione da alcuni anni. Su tutti e tre, dice Leonardi, “prendemmo decisioni troppo tardi”. Sulla povertà, il PD aveva realizzato il “reddito di inclusione”, ma “seppure fatto a tempo di record”, non se ne poté constatare l’attuazione e, sorprendentemente, non se ne parlò in campagna elettorale, cosa che stupisce anche Maurizio Ferrera nella sua Prefazione.
Sull’immigrazione, o sulle politiche migratorie, nei primi tre anni dei governi Renzi-Gentiloni “non fu seguita una linea chiara, e fu solo con l’arrivo di Minniti che si capì che l’unica strada percorribile per tenere insieme solidarietà e sicurezza era quella tracciata da lui” . Ma anche qui era tardi. Sul Sud, “la politica ad esso rivolta è diventata un insieme coerente di azioni… solo nell’ultimo anno del governo Gentiloni, con la nomina di un Ministro specifico, Claudio De Vincenti. E’ infatti dalla sua nomina che “si è cercato di ricondurre i pur importanti patti per lo sviluppo sottoscritti con le Regioni nei tre anni precedenti a una strategia complessiva sulla questione meridionale. Tale strategia mirava a sostenere lo sviluppo, ma era ancora troppo poco definita e troppo poco nota al grande pubblico per non essere offuscata in campagna elettorale dal reddito di cittadinanza, che all’opposto ha come obiettivo il sostegno dei consumi”.
Un discorso molto simile si può fare per un tema di grande e non ritardato impegno dei due governi, le pensioni: “I due accordi (con i sindacati) sulle pensioni, quello del 2016 (APE sociale) e quello del 2017 (APE volontaria), suscitano ancora oggi un grande dibattito perché hanno permesso di riaprire una porta alla revisione della riforma Fornero. Ma, anche in questo caso, gli accordi sulle pensioni oltre a non aver portato fortuna nel Referendum del 4 Dicembre 2016 non sono serviti nemmeno per vincere le elezioni del 4 Marzo 2018” e come stupirsene se questi piccoli gioielli di accortezza economica e ingegnosità amministrativa e organizzativa dovettero confrontarsi in campagna elettorale con la trionfante promessa di “cancellare la Fornero” una volta per tutte ?
Leonardi passa poi a discutere il tema dei rapporti tra il governo e i sindacati sotto Renzi e Gentiloni. Il Jobs Act come è noto fu realizzato di fronte all’ostilità dei sindacati. Infatti si trattava di passare da “una difesa del posto di lavoro in azienda”, secondo la pratica e l’ideologia dei sindacati, a “una difesa del lavoratore sul mercato”, secondo quanto avviene in tutta Europa con buoni risultati. Ma successivamente e su molte questioni importanti e delicate (pensioni, povertà, salari), i governi Renzi e Gentiloni riuscirono a riannodare un buon rapporto di collaborazione. Questo fece sperare che al Referendum e alle elezioni politiche i sindacati avrebbero dato qualche sostegno al PD, ma così non fu, “e la ragione non credo stia nel fatto che i sindacati siano gelosi della loro autonomia ma piuttosto nel fatto che non controllano più come un tempo i voti della loro base”.
E veniamo alle congetture alle quali Leonardi, una mente positiva che di solito ne rifugge, è indotto quasi controvoglia nel tentativo di individuare le cause profonde della sconfitta. La società italiana si trova in una fase di ristagno produttivo e retributivo che dura almeno da due decenni: “Oggi, nel 2018, il reddito pro-capite degli italiani è pari a quello del 1999 ed è 8 punti inferiore a quello del 2008; in tutti gli altri paesi europei, esclusa la Grecia, il reddito pro-capite ha (a volte ampiamente) recuperato i valori precedenti la crisi.” Questo si è riflesso sulla disuguaglianza e la povertà.
“La disuguaglianza in Italia secondo le misure prevalenti (l’indice di Gini) è a livelli simili a quindici anni fa, ma se si usa come indice di disuguaglianza la distanza tra il primo e l’ultimo quintile della distribuzione del reddito si vede che il divario è aumentato durante la crisi e l’aumento è dovuto alla riduzione dei redditi dei poveri e non all’aumento dei redditi dei ricchi: la componente più rilevante della disuguaglianza è dunque l’aumento della povertà”. Dunque, “non basta guardare agli ultimi quattro anni, bisogna allargare lo sguardo sugli ultimi due decenni per capire da dove arrivano l’insoddisfazione di oggi e tutte le sue dimensioni”.
Giusto, l’insoddisfazione montava da tempo. Ma perché si è espressa solo il 4 Dicembre 2016 e 4 Marzo 2018? Che cosa ha fatto da detonatore? Non potrebbe essere stato l’estremo ottimismo, la promessa di una svolta subitanea, il populismo mirabolante con cui Renzi si intratteneva con la cittadinanza, mentre i suoi tecnici lavoravano alacremente e i decreti attuativi venivano sfornati uno dopo l’altro senza che nessuno se ne accorgesse? Su questo Leonardi si astiene dall’esprimere un giudizio.
In conclusione, sostiene l’autore, “i governi Renzi e Gentiloni hanno lavorato come nessuno prima, attuando delle politiche molto più coerenti nel disegno di fondo di quanto non avessero fatto i governi precedenti… Se il successo si misura sui risultati degli ultimi dieci anni, invece che degli ultimi quattro, è comprensibile che abbia vinto il desiderio di cambiamento, tuttavia è difficile pensare che la politica del rigetto (contro gli immigrati, contro l’Europa, contro i governi passati) possa rappresentare la strada vincente. Per recuperare il nostro potenziale di crescita… bisogna rafforzare – e non smontare – la strategia delle riforme strutturali, faticosamente perseguita sino ad oggi. Le riforme del lavoro e delle pensioni possono, e devono, essere migliorate, ma non possono essere abbandonate, pena un ritorno al passato che ci porterebbe alla marginalità in Europa”.
(*) L’autore del testo, già ordinario di Economia monetaria e creditizia all’Università di Pisa, è economista, saggista e socio di Libertà e Giustizia.