Quella di ieri, 20 aprile 2018, è una data storica, come la sentenza che l’ ha segnata. La sentenza che chiude il processo di Norimberga allo Stato italiano. Riscrive la storia della fine della Prima Repubblica e l’ inizio della Seconda.
E condanna per lo stesso reato – violenza o minaccia a corpo politico dello Stato – tanto gli uomini di mafia (Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, unici picciotti superstiti fra gli imputati dopo le morti di Provenzano e Riina) quanto gli uomini dello Stato (i capi del Ros Subranni, Mori e De Donno e l’ inventore di Forza Italia Marcello Dell’ Utri). La Corte di Assise di Palermo ha messo nero su bianco, in nome del Popolo Italiano (rappresentato da sei giudici popolari con la fascia tricolore), quello che noi del Fatto e pochi altri avevamo sempre detto e scritto sul patto neppure tanto occulto fra Stato e mafia che edificò la Seconda Repubblica sui cadaveri di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, degli uomini e donne delle scorte e dei 10 caduti inermi (più 30 feriti) nelle stragi di Firenze, Roma e Milano. Ma un conto sono le ricostruzioni giornalistiche, facili da spacciare per opinioni od ossessioni, un altro sono le sentenze, sia pur di primo grado.
Merito dei pm Ingroia, Di Matteo, Teresi, Delbene e Tartaglia che ci hanno creduto, contro tutto e contro tutti (capi dello Stato, governi, pezzi dell’Arma e dei Servizi, magistrati tremebondi o collusi, giuristi della mutua, storici senza memoria, giornalisti da riporto), fornendo alla Corte le prove non solo per accertare la verità processuale (sempre di molto inferiore a quella storica), ma anche per punirne i colpevoli. E merito dei giudici togati Alfredo Montalto e Stefania Brambille e di quelli popolari che per cinque anni non hanno mai piegato la schiena dinanzi a pressioni altissime e potentissime, e ieri hanno osato compiere fino in fondo il proprio dovere: rendere giustizia a un Paese dove – come diceva Leonardo Sciascia – “lo Stato non processa se stesso”. In attesa delle motivazioni, il dispositivo già consente di ricostruire come andarono le cose nel biennio nero 1992-’94, quando tutto sembrò cambiare e poi tutto tornò come prima. Anzi, peggio. È una ricostruzione che i nostri lettori conoscono bene, perché a noi bastano i fatti, le testimonianze, i documenti. Ora però c’ è il timbro della Corte di Assise. E quelle verità indicibili, che tutti nei palazzi del potere conoscevano da anni ma non osavano ammettere, si possono dire. Con tanti saluti ai negazionisti e agli azzeccagarbugli. Ricordare come andarono le cose è utile non solo per capire la sentenza.
Ma anche per orientarsi nella crisi politica di questi giorni, che vede l’ Italia – oggi come allora – in bilico fra speranze di cambiamento e pericoli di restaurazione.
Nel gennaio del 1992 Salvatore Riina, “tradito” dai suoi referenti Andreotti & C. che non avevano bloccato le condanne dei boss al maxiprocesso in Cassazione, decise di “fare la guerra per fare la pace” con lo Stato, ricattandolo a suon di bombe e delitti politici. Uccise Lima, il “traditore”. Uccise Falcone, il simbolo del “maxi” e della svolta antimafia del governo Andreotti. Sbarrò al Divo Giulio la strada del Quirinale. E si mise in attesa. Risposero i vertici del Ros, la triade Subranni-Mori-De Donno: andarono a trattare con Vito Ciancimino perché facesse da tramite col Capo dei Capi le cui mani grondavano del sangue di Capaci. E continuarono a trattare dopo via d’ Amelio. Sapremo dalla sentenza se i giudici hanno ritenuto provata l’ ipotesi più probabile: e cioè che Borsellino sia stato assassinato a distanza così ravvicinata da Falcone perché indagava sui rapporti Mangano-Dell’ Utri-B. e perché aveva saputo della Trattativa e stava per smascherarne gli autori. Sia come sia, è per questo che i tre carabinieri sono stati condannati insieme a Bagarella e Cinà: per avere trasmesso ai governi Amato e Ciampi il messaggio ricattatorio di Cosa Nostra (il “papello” con le richieste di Riina in cambio della fine delle stragi) perché lo Stato si piegasse ai mafiosi. E lo Stato si piegò. Prima con la mancata perquisizione del covo di Riina (arrestato, anzi venduto da Provenzano) da parte del Ros, che consentì ai picciotti dello Zu Binu di portar via indisturbati le carte dalla cassaforte.
Poi con la rimozione degli uomini della linea dura (il ministro dell’Interno Scotti e il direttore del Dap Niccolò Amato, mentre il ministro della Giustizia Martelli se ne andò per Tangentopoli) per rimpiazzarli con quelli della linea molle (dal nuovo Guardasigilli Conso al nuovo capo del Dap Capriotti) che, pressati dal triplice messaggio stragista di Firenze, Milano e Roma fra maggio e luglio del ’93, revocarono il 41-bis a ben 330 mafiosi detenuti. A riprova del fatto che le stragi pagavano e la Trattativa, lungi dal frenarle, le incoraggiava. Fu quello il primo di una lunga serie di regali a Cosa Nostra, proseguiti per vent’ anni sotto i governi di centrodestra e centrosinistra, ma purtroppo non punibili penalmente.
In pieno terremoto Mani Pulite, le elezioni del 1994 si avvicinavano, col rischio per l’Ancien Régime di un vero rinnovamento. Fu così che l’ eterna politica mafiosa trovò in Dell’ Utri, e dunque in Berlusconi, i suoi vindici e salvatori. Nel giugno ’92, subito dopo Capaci, Dell’ Utri capì che i vecchi protettori del suo mondo di mezzo fra mafia e Fininvest stavano per defungere. E incaricò il consulente Ezio Cartotto, di studiare un partito della Fininvest. B. ne fu informato all’ inizio del ’93, quando aveva già le aziende sull’orlo della bancarotta e sotto inchiesta, e tutti i manager indagati o in galera: mancava solo lui. Il Cavaliere sposò il progetto, che gli avrebbe risparmiato il crac e il carcere, portando in politica il patto personale e aziendale stipulato nel 1974 con i boss Bontate, Teresi, Di Carlo, Gaetano Cinà e Mangano. I dubbi delle “colombe” Gianni Letta, Fedele Confalonieri e Maurizio Costanzo furono spazzate via dall’ autobomba di via Fauro contro Costanzo, illeso per miracolo.
Mangano, sopravvissuto alla guerra tra la vecchia mafia palermitana e la nuova mafia corleonese perché detenuto, appena uscito si era salvato grazie al suo rapporto privilegiato con Marcello&Silvio. Infatti prima Riina e poi Provenzano lo mandarono spesso a Milano2 a fare la spola fra Dell’ Utri e Cosa Nostra, per testare lo stato di avanzamento lavori di Forza Italia. Rassicurato, nell’autunno del ’93 lo Zu Binu sciolse il partitino regionale e secessionista “Sicilia Libera”, appena fondato da Cosa Nostra, per puntare tutto sul partitone di Silvio & Marcello.
Poi, tra fine ’93 e inizio ’94, Mangano tornò più volte ad avvertire Dell’ Utri e, per suo tramite, il neopremier Berlusconi che le stragi, bruscamente interrotte col fallimento e poi la revoca della mattanza di carabinieri allo stadio Olimpico a Roma, sarebbero riprese se il nuovo governo non avesse mantenuto i patti. Fu allora che Giuseppe Graviano, al bar Doney di via Veneto a Roma, confidò al suo killer Gaspare Spatuzza che B. e Dell’ Utri “ci stanno mettendo l’ Italia nelle mani”.
Per questo anche Dell’ Utri è stato condannato, pure lui in concorso col boss Bagarella: per aver portato il messaggio ricattatorio di Cosa Nostra al suo amico premier (che ora puzza ufficialmente di mafia non solo come imprenditore, ma anche come politico e capo del governo). Cioè per aver traghettato il Grande Ricatto dalla Prima alla Seconda Repubblica. E condannato quest’ ultima, con quell’ indelebile peccato originale, a restare in mano a Cosa Nostra.
Ps. Si spera che ora i 5Stelle rinuncino definitivamente all’ insano proposito di governare col concorso esterno di un partito nato dalla trattativa con la mafia. E prendano molto sul serio quella che ieri pareva l’ ennesima battutaccia di B.: “I grillini li prenderei a pulire i cessi nelle mie aziende”. Siccome i bagni di Publitalia, negli anni 90, li pulivano le cooperative di due amici e delle tre figlie di Mangano, quella non è una battutaccia. È un messaggio.
Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2018