Care amiche e cari amici di Libertà e Giustizia,
ad un anno dalla mia elezione a presidente dell’associazione vorrei ringraziarvi con ancor più forza di quanto abbia fatto a Bologna l’11 marzo dell’anno scorso: grazie!
Vorrei ringraziare tutti i membri del Consiglio di Presidenza, il presidente onorario (che salutiamo con affetto), i membri del Consiglio di direzione, i responsabili delle varie funzioni, la preziosissima Gioia Baggio e tutti i coordinatori dei circoli e ogni socio.
E, consentitemelo, devo un particolare ringraziamento a Sandra Bonsanti, a Stefano Innocenti e a Francesco Pallante, con i quali il confronto è quasi quotidiano.
Grazie, intanto, per la pazienza e la simpatia e anche per le critiche salutari con cui avete sopportato un presidente che assomiglia molto al proverbiale elefante nella cristalleria.
So che il mio impegno (politico: cioè di cittadino) partito dal teatro Brancaccio, o la notizia che un movimento mi abbia chiesto di stare in una lista ipotetica di ministri (un invito che ho declinato) possono aver turbato la vita dell’associazione. In questi e in altri casi ho cercato di spiegare con la maggior chiarezza possibile, ai media e sul nostro sito, le mie ragioni, e soprattutto il fatto che Libertà e Giustizia non avesse nulla a che fare con tutto questo.
Ma spero anche di essere stato capace di rendere chiaro a tutti voi che la bussola che mi ha guidato, in tutti questi casi diversi, è stata quella dei valori e della visione che ho provato ad illustrare in un libro uscito quest’anno (Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità) i cui proventi vanno al Gruppo Abele, e che è esplicitamente dedicato a ciascuno di voi, soci di Libertà e Giustizia.
Ma soprattutto devo dirvi grazie per l’intelligenza, la passione civile, l’umanità con cui dedicate tanto tempo e tante energie al nostro lavoro comune.
Ma in cosa consiste questo nostro lavoro? Dovessi dirlo in modo sintetico, prenderei il titolo di uno dei nostri manifesti, quello del 2009: «rompiamo il silenzio!».
Libertà e Giustizia si è data, nascendo sedici anni fa, questo compito: rompere il silenzio.
Rompere il silenzio innanzitutto dentro ciascuno di noi: coltivando bene il nostro giardino interiore, come dice Voltaire. Cioè coltivando la nostra conoscenza e la nostra cultura, alimenti fondamentali delle virtù civili.
E poi rompere il silenzio nella nostra vita sociale: e dunque parlare, e confrontarci nei circoli, luoghi cruciali dell’associazione.
Infine rompere il silenzio nel discorso pubblico: quello locale, dove ogni circolo può e deve intervenire; e quello nazionale, sempre meno permeabile alle voci dei cittadini.
Quel manifesto del 2009 si interrogava in questo modo: «Che cosa possiamo fare dunque noi, soci e amici di Libertà e Giustizia? Possiamo far crescere le nostre forze, per unirle alle intelligenze, alle culture e alle energie di coloro che rendono vivo il nostro Paese, e per amor di sé e dei propri figli non si rassegnano al suo declino». E le linee che allora Libertà e Giustizia indicava a se stessa erano – cito – «Innanzitutto contrastare le proposte di stravolgimento della Costituzione. Difendere la legalità contro il lassismo e la corruzione. Promuovere l’obbligatorio ricambio della classe dirigente. Riaffermare la laicità. Promuovere la cultura politica».
Ecco, ciò che, durante quest’anno, ho visto e ho conosciuto del vostro lavoro mi ha fatto capire che siamo sulla strada giusta: certo, abbiamo tanto lavoro da fare, abbiamo tanto da migliorare. Ma Libertà e Giustizia è viva, attiva, combattiva: e coltiva il suo giardino con passione, perché il giardino della Repubblica sia fiorente, e sia sano.
Il fondamento e il centro del nostro lavoro è rappresentato dalla vita dei circoli.
E mi fa particolarmente piacere poter dire che in quest’anno sono nati ben cinque nuovi circoli: quelli di La Spezia, Riviera del Brenta, di Rovigo e Polesine, di Siena e della Maremma Grossetana. Oggi li accogliamo con affetto, entusiasti di continuare insieme anche a loro il nostro cammino.
Un anno fa avevo annunciato la mia intenzione di visitare, nei tre anni della mia presidenza, tutti i 40 circoli di Libertà e Giustizia.
Sono riuscito ad andarne a trovare per ora dieci: quelli di Bologna, Brescia, Eboli, di Prato, di Grosseto e della Maremma (incontrati a Follonica), di Milano, della Riviera del Brenta, di Rovigo e del Polesine, della Val d’Aosta, ed ho già i biglietti per volare a giugno a Gioia del Colle.
Ho poi incontrato in manifestazioni diverse i soci di Messina e di Padova, quelli di Venezia (in una bella iniziativa sull’Italiano della Costituzione, insieme a Lorenza Carlssare), quelli di Roma (per la presentazione solenne, in Campidoglio, del Piccolo atlante della corruzione), e spesso quelli di Firenze (ricordo, tra le tante iniziative, quelle sulla legge elettorale, e sul caso Consip; e l’importantissima giornata nazionale sul diritto alla salute, organizzata dal circolo fiorentino).
E naturalmente ricordo con entusiasmo il nostro bel seminario nazionale del 3 dicembre scorso: qua a Firenze, ad un anno dalla vittoria referendaria.
Invece, devo chiedere scusa per non essere riuscito ad essere presente alle scuole di Libertà e Giustizia, così capaci di riflettere la nostra vera missione: quella organizzata dal circolo di Genova (“Paesaggio e sviluppo locale per la rinascita delle aree interne”), quella di Treviso (“Prendersi cura della Polis”), quella sul lavoro, a Bologna, e quella che si terrà a Ravenna (sui diritti e la laicità).
In ogni caso, l’immagine di Libertà e Giustizia che ne ho tratto è quella di una associazione viva, plurale, diversificatissima, al suo interno: ma unita da uno stile inconfondibile, e da una tensione ideale e morale comune.
Una associazione capace di combattere pubblicamente una battaglia, e di vincerla: come nel caso del testamento biologico. Grazie soprattutto a Rosaria Bortolone e ad altri soci, Libertà e Giustizia si è impegnata a fondo nella campagna #fatepresto, che rispondeva all’altissimo appello civile di Michele Gesualdi.
Ho anche visto che abbiamo ancora tanto lavoro da fare, certo: dobbiamo aprire altri circoli, e dobbiamo averne di più numerosi. Specialmente al Sud: e, anzi, vi comunico che ieri, con il Consiglio di Presidenza e con quello di direzione e i coordinatori, abbiamo preso la decisione di fare proprio in una città del Mezzogiorno la prossima assemblea annuale, della primavera 2019.
Dobbiamo, soprattutto, conquistare la fiducia e suscitare l’entusiasmo dei più giovani. Dobbiamo rendere più chiaro, efficace e democratico il rapporto tra la presidenza e i circoli. E dobbiamo organizzare meglio il nostro lavoro.
Per questo ieri abbiamo anche deciso le linee fondamentali della ricostruzione del sito dell’associazione, che è il nostro volto certo più visibile e percepibile.
Il nostro lavoro, dicevo. Quando, nelle visite ai circoli, ho provato a dire come vedo io questo lavoro, mi è capitato di leggere e commentare con voi un testo che mi è molto caro. È l’arringa di parte civile che Piero Calamandrei pronunciò nel 1945 al processo agli assassini dei fratelli Rosselli. Qui egli descrive il lavoro di un circolo, per l’appunto. Quello fondato da Carlo e Nello Rosselli, da Gaetano Salvemini e dallo stesso Calamandrei per rispondere alle domande angoscianti suscitate dall’avvento del fascismo. Cito Calamandrei: «E allora ai Rosselli, mentre quelli bastonavano e assassinavano impunemente e la gran massa inerte li lasciava fare, si presentò in termini angosciosi il problema morale dell’Italia. Perché accadeva questo generale sfaldamento di tutta una struttura nazionale? Perché questo crollo? Perché questa indifferenza? Prima di agire bisognava poter rispondere a queste domande tormentose: bisognava capire. Per questo, come primo atto di serietà e responsabilità, essi promossero quelle riunioni di amici tormentati dalle stesse domande e assetati anch’essi di capire, che dettero origine al ‘circolo di cultura’; quel circolo che oggi è rinato come era, e che di diverso da allora ha soltanto questo: che oggi si intitola al loro nome. Un episodio che sembra trascurabile: eppure è di lì che comincia la vita politica dei fratelli Rosselli. Io ricordo con dolce malinconia quelle prime riunioni: tenute prima in uno studio legale messo a disposizione da un amico nelle ore serali, una decina di persone e non più; poi in un locale nostro, in Borgo Santi Apostoli, dove il circolo ebbe pubblicamente la sua sede. … Ci riunivamo in quella sala a leggere e a discutere: temi di politica, di economia, di letteratura, di morale. Una breve introduzione di un relatore preparato che poneva il tema, poi una discussione animatissima, che spesso si protraeva per ore. In ogni riunione le idee si chiarivano, i propositi si rafforzavano».
Ecco, io non saprei trovare parole più attuali, più chiare, più calzanti per indicare sia i moventi, le ragioni che ci spingono a riunirci nei circoli sia il modello a cui si ispirano, ben consapevoli della distanza, quegli stessi circoli di Libertà e Giustizia.
Vorrei provare a farvi una proposta che, per il prossimo anno, renda questo lavoro più comune, più unitario, più profondo, più articolato: una proposta che risponde ad una richiesta che fu avanzata da alcuni di voi un anno fa a Bologna, e poi di nuovo a dicembre, qua a Firenze.
Ebbene la proposta è che per quest’anno sociale, dunque fino alla prossima assemblea della primavera 2019, tutti i circoli lavorino su un tema unitario: naturalmente questo non significa che i circoli debbano rinunciare ai tanti temi legati al territorio o che stanno a cuore ai loro soci. Significa solo che quest’anno ci sarà anche una linea unitaria, nel lavoro dei circoli.
Il tema che vorrei proporvi è quello, cruciale, della rappresentanza parlamentare.
Tutto il discorso pubblico sulla politica ruota attorno – esplicitamente, e più spesso implicitamente – al ruolo del Parlamento, che è di fatto visto da quasi tutte le forze politiche come un intralcio. Sbagliano? Hanno ragione? Per valutare, pesare, giudicare le posizioni dei diversi partiti su temi cruciali come la legge elettorale, le riforme costituzionali, la nascita delle maggioranze e dei governi è essenziale conoscere non solo superficialmente le vere caratteristiche della nostra democrazia rappresentativa. Le domande sono quelle che in questi giorni sono sulle prime pagine dei giornali: chi ha vinto le elezioni? Davvero i cittadini hanno messo qualche partito al governo e altri all’opposizione? Ed esiste o no un vincolo morale o politico che leghi i parlamentari alle volontà dei cittadini? Quale il confine tra democrazia diretta e rappresentativa? Ci vuole una legge maggioritaria per avere un governo?
Sono temi che in parte si possono riassumere parlando del vincolo di mandato degli eletti in Parlamento, che è negato senza ambiguità dall’articolo 67 della Costituzione. È un nodo complesso quanto centrale, che può essere affrontato da moltissimi punti di vista: storico, morale, filosofico, costituzionale, del diritto parlamentare e così via.
Ogni circolo potrà declinarlo in incontri, conferenze, lezioni, dibattiti che permettano di aumentare le conoscenze e dunque di fondare e strutturare il giudizio dei singoli soci. Ho chiesto ieri ai membri del consiglio di presidenza e oggi chiedo a tutti i nostri soci che hanno competenze specifiche in queste materie, di mettere a disposizione dei circoli il loro tempo e i loro contatti, per assicurare al nostro lavoro annuale la qualità più alta possibile.
Alla fine delle mie conclusioni del seminario del 3 dicembre, enumeravo così i compiti di Libertà e Giustizia: «la costruzione della critica e del dissenso; la riconciliazione tra discorso pubblico e discorso privato; la battaglia per le regole; l’attuazione della Costituzione». Ebbene, credo che riflettere a fondo sulla natura della rappresentanza in Parlamento, cuore della nostra democrazia e insieme ferita aperta degli ultimi decenni, sia il modo migliore per poter partecipare nel modo più consapevole e dunque incisivo al discorso pubblico.
Credo che questa sia anche la strada più efficace per rendere fecondo e soddisfacente il nostro lavoro: ciascuno di noi sente il bisogno di affinare il senso critico, di conoscere il dentro delle cose, di verificare e mettere alla prova le opinioni. E credo che sia anche il modo migliore per far comprendere a cosa può servire iscriversi a Libertà e Giustizia: a forgiarsi, insieme, gli strumenti per un pieno esercizio della sovranità.
Accogliamo ora con particolare piacere la proposta del nostro presidente onorario, che ci invita ad immaginare un’assise dedicata al ruolo della cultura nella costruzione della comunità civile. Chiedo in particolare al consiglio di presidenza di farsi carico, con me, di questo nuovo compito.
Naturalmente, accanto al discorso interno dell’associazione, c’è quello esterno. La presa di parola nel discorso pubblico, un compito che non tocca questa volta ai circoli, ma al Consiglio di Presidenza e al presidente. È l’altra faccia della medaglia: senza una voce udibile, Libertà e Giustizia non esisterebbe e non inciderebbe.
Trovo che fin dalla sua nascita, l’associazione ha citato e riferito a se stessa una frase celebre di Norberto Bobbio: «Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme». «Democratico brontolone» si definiva Calamandrei. Gufi, ha detto qualcuno purtroppo non estraneo a questa mia bella città.
Ebbene sì: siamo in allarme. E diamo l’allarme: senza paura di paragonarci alle umili, ma quanto utili, oche del Campidoglio. Ripercorro velocemente le occasioni in cui abbiamo ritenuto di farlo in questo anno.
Nel marzo del 2017 censurammo la ministra Marianna Madia, che non aveva scritto una parte significativa della tesi con cui ha ottenuto un dottorato. «Ora – scrivevamo – questo comportamento – in sé grave e censurabile – diventa gravissimo quando riguarda chi ora è un ministro della Repubblica. Ed è politicamente insostenibile quando riguarda un ministro che ha proposto una riforma della Pubblica Amministrazione che brandisce il vessillo della ‘meritocrazia’ e si propone la caccia ai ‘furbetti’». Un tema importante per l’etica pubblica e per la credibilità e dignità di un paese in cui moltissimi bravi e onesti laureati e dottorati sono costretti a emigrare.
In agosto prendemmo la parola sulla questione più grave e cruciale del nostro tempo: le migrazioni. In quell’occasione Libertà e Giustizia chiese «con forza al governo Gentiloni di ritirare, o almeno di riconsiderare profondamente, il Codice di Condotta che ha voluto imporre alle Organizzazioni Non Governative che, nel Mediterraneo, svolgono una funzione umanitaria fondamentale, sopperendo meritoriamente all’ignavia e all’inerzia dei governi. Come ha notato l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione si tratta di una misura che «mina l’efficacia delle attività di soccorso». In altri termini, il costo di questo provvedimento ambiguo e sbagliato rischia di essere misurato in vite umane perdute. …Libertà e Giustizia rileva che il Codice Minniti non ha valore di legge, eppure sta già consentendo al governo di intervenire in modo straordinariamente pesante nello scenario già teso e difficile del Mediterraneo. In sostanza, il governo sta ribaltando la politica italiana verso i migranti senza passare dal Parlamento: un passo drastico, preceduto dalla inaudita minaccia di chiudere i porti, e ora accompagnato da oscure minacce alle ong che rifiutano, del tutto legittimamente, di sottoscrivere il Codice». Come si vede, ancora una volta Libertà e Giustizia interveniva sul cuore stesso della vita democratica: il Parlamento e i suoi poteri negati.
E ancora. In ottobre provammo a ricordare a Laura Boldrini e Pietro Grasso che «i vertici istituzionali hanno il dovere di garantire il corretto rispetto delle regole della competizione politica. Vogliamo credere che questa volta le presidenze delle Camere sapranno difendere il dettato costituzionale respingendo l’inammissibile pretesa del governo di apporre la fiducia sulla legge elettorale. E vogliamo credere che questa volta il Presidente della Repubblica non accetterà di farsi coinvolgere in un’operazione finalizzata, a pochi mesi dal voto, a predefinire incostituzionalmente il risultato delle elezioni a discapito della volontà degli elettori».
Del novembre è una doverosa lettera aperta a Eugenio Scalfari, in cui gli abbiamo detto che «Noi di Libertà e Giustizia, che per tanti anni abbiamo condiviso con il Gruppo Espresso-Repubblica battaglie e convinzioni, in quella tua dichiarazione a favore di Silvio Berlusconi non ci riconosciamo proprio, né ci riesce di ridimensionare la nostra delusione».
A dicembre abbiamo detto che ciò che la Commissione parlamentare sulle banche aveva tratteggiato «Una storia opaca e imbarazzante, da cui emerge con urtante chiarezza come Maria Elena Boschi non abbia agito «nell’interesse esclusivo della nazione» (come aveva giurato di fare assumendo l’incarico di ministro): le sue dimissioni dal governo e il suo ritiro dalla prossima competizione elettorale appaiono le conseguenze naturali, e perfino ovvie, di questo ennesimo scandalo italiano».
A febbraio di quest’anno ci siamo trovati a dover reagire a un delitto fascista, a Macerata. Abbiamo aderito alla manifestazione in quella città e a quella romana dell’Anpi. E abbiamo scritto un comunicato che vorrei rileggere per intero: «Libertà e Giustizia condanna l’atto di terrorismo fascista di Macerata, e ne denuncia la riconoscibile matrice politica. L’autore di questo gesto infame si era candidato con la Lega, il cui segretario Matteo Salvini ha più volte invitato «a fare pulizia» usando anche «maniere forti». La fotografia in cui lo sparatore sporge il braccio (decorato dal tatuaggio di una croce celtica) per dare la mano a Salvini ritrae con nitida eloquenza il contesto di questo nuovo squadrismo fascista. Libertà e Giustizia deplora anche l’inerzia delle massime istituzioni della Repubblica, che hanno smorzato i toni sostenendo la presunta natura individuale del gesto di quello che è stato definito uno squilibrato. Il razzismo è l’attribuzione di pesi diversi alle persone in base all’appartenenza etnica: in Italia è evidente che non tutte le vite sono uguali. Non solo i migranti non sono più eguali davanti alla legge, dopo i provvedimenti dell’attuale ministro dell’Interno, ma anche l’importanza simbolica delle ferite ai loro corpi è, nel nostro discorso pubblico, incomparabilmente minore di quella delle ferite inferte ai corpi bianchi. Avremmo voluto vedere i vertici della Repubblica e dei partiti democratici ai capezzali delle vittime, e non intenti a misurare le parole in vista della campagna elettorale. Il risultato è che si parla di una invasione di migranti (che semplicemente non esiste, numeri alla mano) e non si parla dell’invasione di fascisti (che invece purtroppo è sotto gli occhi di tutti), e della drammatica indifferenza che la circonda e la favorisce. Crediamo che sottovalutarla sia un grave errore, che rischiamo di pagare terribilmente caro. Il nostro principale nemico è l’indifferenza. Oggi come novanta anni fa».
Alla fine di febbraio, siamo riusciti a mettere online la nostra bussola per le elezioni, un testo bello e ricco che si deve ad alcuni membri del consiglio di Presidenza, e che è stato curato soprattutto da Francesco Pallante: un testo che rimane assai utile e attuale anche oggi, per navigare nel mare dei programmi dei partiti e di una legge elettorale che potremmo dover presto usare di nuovo. Esattamente il tipo di ‘servizio’ – in termini di documentazione, conoscenza, analisi critica, esercizio concreto della sovranità – a cui è vocata Libertà e Giustizia.
Dopo le elezioni abbiamo dovuto denunciare pubblicamente ciò che avevamo ampiamente previsto: il ritorno a una “legislatura costituente” in cui si annuncia di dover cambiare estesamente la Costituzione. «Il progetto – abbiamo scritto il 14 marzo – è evidente: riportare le lancette dell’orologio politico a prima del 4 dicembre 2016: 2è un grave errore politico pensare che la vittoria del No al referendum abbia voluto dire che le riforme non si faranno mai più. I motivi di quel No sono vari: chi era contrario nel merito, chi dava una valutazione politica, chi era contro Renzi. Ma una classe dirigente non può concepire di lasciare irrisolti i nodi di un sistema che non funziona, oggi più di prima” Sono parole di una intervista rilasciata oggi al «Corriere della sera» da Dario Franceschini, che come ministro per i rapporti con il Parlamento del governo Letta firmò la riforma costituzionale che coincideva in grandissima parte con quella poi firmata dalla sua successora nel governo Renzi, Maria Elena Boschi.
E ora ci risiamo: si torna a proporre l’abolizione di una camera e una legge elettorale che assicuri la «governabilità». Non la revisione di un singolo punto, come previsto dall’articolo 138, ma una riforma così estesa da far chiamare (con una bestemmia istituzionale e politica) «costituente» questa legislatura. Una legislatura costituente avviata attraverso una legge elettorale palesemente incostituzionale come il Rosatellum: un capolavoro. Libertà e Giustizia si rivolge oggi ai Comitati del No, e a tutte le associazioni e le forze sociali che hanno fermato la riforma Renzi-Boschi: è l’ora di riprendere la lotta.E si rivolge alle forze parlamentari che si erano schierate contro quella riforma, a partire da quella più grande, il Movimento 5 Stelle: non vi prestate a questo gioco truccato che punta a ridurre lo spazio della democrazia e a salvare la più cinica e sgangherata nomenclatura della nostra storia politica.Settant’anni fa, intervenendo in Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 – subito dopo il voto finale di approvazione della Carta – il presidente del Consiglio dei ministri, Alcide De Gasperi, pronunciò parole terribilmente chiare per il suo, e per i successivi esecutivi della Repubblica: «Il Governo ora, fatta la Costituzione, ha l’obbligo di attuarla e di farla applicare: ne prendiamo solenne impegno». Noi crediamo che quell’impegno sia sempre valido, e anzi urgente».
A questa lunga serie di prese di posizione, cioè di punti di rottura dell’odiosa indifferenza che sembra dominarci, oggi siamo chiamati ad aggiungerne una. Perché qualunque cosa si creda delle atrocità consumate in Siria, siamo persuasi che l’articolo 11 della nostra Costituzione, il principio fondamentale per cui l’Italia ripudia la guerra, non consenta nemmeno la co-belligeranza rappresentata dalla concessione delle nostri basi ad una guerra di Donald Trump.
È stato dunque un anno intenso e ricco.
Un anno in cui abbiamo dovuto prendere decisioni delicate: come quella di non promuovere, come associazione e pur lasciando libero ogni circolo di regolarsi come crede, le leggi di iniziativa popolare lanciate dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale: sul cui funzionamento dovremmo forse discutere con qualche attenzione.
Un anno denso di incontri importanti: come quello con la Rete dei Numeri Pari di Libera, alla quale abbiamo aderito. Ho sostenuto pubblicamente, a Roma, insieme a Don Luigi Ciotti la proposta di reddito di dignità, così diversa da quella di Pd e da quella di Cinque Stelle, portata avanti dalla Rete: e credo che la ‘giustizia’ di Libertà e Giustizia dovremmo sempre più esplicitamente e profondamente intenderla come giustizia sociale, cioè come attuazione dell’articolo 3 della Costituzione.
Un anno in cui abbiamo perso un grande amico, Stefano Rodotà, che vorrei ricordare con le parole che, come presidente di Libertà e Giustizia, ho scritto sul Fatto Quotidiano: « Si serra la gola alla notizia che non ascolteremo più la voce ferma, affettuosa e ironica di Stefano Rodotà. E si sente che da oggi, senza quella voce, siamo ancora un po’ meno sovrani: un po’ più indifesi, più soli, più fragili.
Quando capitava di camminare per strada in sua compagnia, invariabilmente succedeva che un cittadino si avvicinasse per salutarlo chiamandolo ‘presidente’. E non si riferiva alle sue tantissime presidenze (per esempio a quella del Partito Democratico della Sinistra, in un’epoca politica che oggi sembra remotissima), ma al fatto che per molti, per molti di noi, Stefano Rodotà era il presidente morale della Repubblica. Non c’erano polemica, o faziosità in questo dolce legame sentimentale: c’era invece un profondo senso di gratitudine. Tutti ricordiamo quell’aprile di quattro anni fa, in cui il nome di Rodotà risuonò per 217 volte nell’aula di Montecitorio dove si eleggeva il Capo dello Stato. E ad ogni lettura l’immaginazione correva verso un’altra Italia: un’Italia più libera, più dignitosa, più solidale. L’Italia della Costituzione e del popolo sovrano.
L’Italia che tante volte è scesa in piazza per questa Costituzione e questa sovranità: e Libertà e Giustizia ricorda con profonda gratitudine, tra tante occasioni di incontro e lotta comune, la presenza di Stefano alla grande manifestazione romana dell’ottobre del 2013 per difendere la “via maestra” della Costituzione.
Il Rodotà politico era la naturale – ma quanto coraggiosa! – conseguenza dello studioso che non ha usato la sapienza del diritto per rendere più potenti i detentori del potere, ma per restituirne un po’ agli oppressi, agli ultimi. Se dovessi indicare il nucleo della sua altissima lezione direi che ci ha insegnato – sono parole sue – «l’irriducibilità del mondo al mercato». La più essenziale delle lezioni di cui ha bisogno il mondo di oggi.
Tra i beni comuni che è vitale sottrarre alla dittatura del mercato, Rodotà ne indicava uno modernissimo quanto essenziale: la rete. «In questo spazio – ha scritto – tutti e ciascuno acquistano la possibilità di prendere la parola, acquisire conoscenze, creare idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, discutere, partecipare alla vita pubblica, costruendo così una società diversa, nella quale ciascuno può rivendicare il suo diritto ad essere egualmente cittadino. Ma questo diviene più difficile, se non impossibile, se la conoscenza viene recintata, affidata alla pura logica del mercato, imprigionata da meccanismi di esclusione che ne disconoscono la vera natura e così mortificano una ascesa che ha fatto della conoscenza in rete il più evidente dei beni comuni». Tra i tanti diritti al cui studio e alla cui difesa Rodotà ha dedicato una lunga vita felice è forse proprio il diritto alla conoscenza quello che oggi appare il fondamento più essenziale, e insieme più fragile, della nostra democrazia.
Il modo migliore per ricordare questo nostro grande amico, per provare ad essergli grati, è continuare a lottare per costruire, con le sue parole e le sue idee, «una società diversa»».
Costruire una società diversa, costruire una politica diversa: «per questo – uso parole di Sandra Bonsanti – è importante che Libertà e Giustizia vada avanti».
Grazie!