«Sono sconvolta. Senza parole. Triste». L’italiano perfetto di Jhumpa Lahiri cerca mille sfumature per raccontare lo sconcerto che si legge sul suo volto. La scrittrice americana Premio Pulitzer ha da tempo scelto Roma come sua seconda casa: anche quando si trova a Princeton, dove insegna, segue con attenzione quello che accade in Italia.
L’identità, l’appartenenza a due mondi, la vita di chi arriva da un Paese per vivere in un altro sono i temi dei libri che l’hanno resa una delle scrittrici più amate della sua generazione. Anche per questo l’ennesimo episodio di razzismo e di violenza avvenuto a Roma l’ha toccata tanto: e anche perché è avvenuto in un luogo molto speciale per lei. Per questo, mentre il sole tramonta sui colli della città, sente il bisogno profondo di dire la sua su quello che, da lontano e da vicino, ha visto accadere in Italia in queste settimane.
Signora Lahiri, perché l’ aggressione avvenuta qualche giorno fa a Roma la tocca così tanto?
«Ci sono molti elementi. Ho scoperto Roma in questa stagione, nel 2003, quando affittai un appartamento in via Arenula, poco lontano dal luogo dell’ aggressione. Mi innamorai della città in quel luogo e dissi subito a mio marito che volevo vivere qui: almeno per un po’. Ora lo faccio: vado in America e torno qui, nella mia casa. Ogni volta sono colpita dall’ affetto di questa città: non solo per me, ma in generale, da quello che si respira nelle vostre piazze, così diverso da quello che c’ è in America. Ma due giorni fa ero a via Arenula e una giornalista che non sapeva chi fossi si è avvicinata per chiedermi cosa pensavo di quello che era accaduto. Non sapevo niente, ero appena arrivata: ma capire mi ha sconvolta. Sto facendo studiare ai miei studenti a Princeton Primo Levi. E improvvisamente le sue parole mi sono tornate in mente».
In che modo?
«L’ atmosfera che descrive ne “Il sistema periodico”, il razzismo crescente, l’ intolleranza. Il luogo: un’ aggressione razzista a pochi metri dai palazzi dove tante famiglie ebree vennero deportate. Ho capito: che questo è l’ inizio di qualcosa. Soltanto l’ inizio spero, di qualcosa che dobbiamo arginare. Per questo sento il bisogno di parlare».
L’ inizio di cosa?
«Di un nuovo fascismo. Siamo di fronte a qualcosa di inammissibile: picchiare qualcuno che sta tornando a casa dopo aver lavorato chissà quante ore, una persona che vive in modo regolare in questa città, ma ha la colpa di essere straniero. Questo vuol dire una cosa sola. Io sono cresciuta negli Stati Uniti: da piccola avevo paura di quello che poteva accadere a chi aveva la pelle scura come me, come la mia famiglia. Fino a due giorni fa a Roma sarei tornata a piedi da una cena: forse non alle tre del mattino, ma di certo a mezzanotte. Ora sono qui e ho paura. La xenofobia fuori controllo di certi giovani mi fa paura. Il richiamo a personaggi che hanno precipitato questo Paese nell’ orrore mi fa paura. Anna Frank negli stadi mi fa paura. Vorrei sentire parole più dure dal mondo della politica, vorrei condanne più chiare».
Parlando di politica: so che Lei ha seguito da vicino il dibattito sullo Ius soli. L’appartenere a due mondi, l’identità, lo smarrimento di chi si sente straniero sono i temi portanti dei suoi libri
«Ha ragione. Quando la legge è stata bloccata è stato un momento davvero triste per me. Vorrei che l’ Italia capisse che un’ Italia mista, aperta, è l’ unica soluzione, l’ unica speranza per questo Paese. Sarebbe la sua forza. È tutto collegato: la violenza, lo Ius soli, dare sempre la colpa allo straniero.
Dove vogliamo arrivare? Togliere gli stranieri dal quadro per purificare l’ Italia: è questa la soluzione? Siamo di fronte a una costellazione di eventi. È come se qualcuno dicesse: facciamo un altro giro? Ma davvero quello che è accaduto con il fascismo non è bastato? ».
E quindi?
«E quindi bisogna intervenire in modo netto. La legge sullo Ius soli è fondamentale, è disumano non farla passare.
L’ incapacità della politica di agire, reagire e gestire di fronte a quello che è accaduto a Roma lascia senza parole. Per questo ho voluto parlare: dobbiamo dire qualcosa se vogliamo fermare tutto questo».
la Repubblica, 1 Novembre 2017