Appaiono non solo incomprensibili, ma destituite di ogni fondamento storico e culturale, le obiezioni relative al nucleo stesso della legge sullo ius soli. Per una ragione molto semplice: in Italia l’idea stessa di nazione è indissolubile dal territorio come costruzione culturale.
Non siamo mai stati una nazione etnica, ‘per via di sangue’: non c’è nazione più felicemente ‘impura’ di quella italiana, frutto dei più vari e numerosi meticciati. È un’altra, la nostra storia.
Negli stessi versi dell’XI canto del Purgatorio in cui Dante mette in chiaro che Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti e poi soprattutto lui stesso hanno la gloria di aver fondato il volgare italiano, vengono esaltati Cimabue e Giotto, padri dell’altra lingua degli italiani: quella dell’arte figurativa, e dei monumenti. E quando Raffaello, nel 1519, prova a convincere papa Leone X a difendere le rovine di Roma antica, definisce questa ultima «madre della gloria e della fama italiane»: in un momento in cui l’idea stessa di nazione era ancora solo un vago progetto, era già evidente il ruolo decisivo che in esso avrebbe avuto il suolo, e ciò che su quel suolo avevamo saputo costruire. Come tre secoli prima aveva capito Cimabue rappresentando (sulla volta della Basilica Superiore di Assisi) l’«Ytalia» attraverso i monumenti di Roma, è proprio la lingua monumentale dell’arte quella che, lungo i secoli, ha reso noi tutti «italiani» per purissimo ius soli.
È un filo, questo, che si può seguire fino al Novecento. Per esempio, fino al momento in cui un gruppo di intellettuali antifascisti (Piero Calamandrei, Nello Rosselli, Luigi Russo, Attilio Momigliano, Benedetto Croce, Alfonso Omodeo, Leone Ginzburg e altri ancora) intraprese una straordinaria serie di ‘gite’ domenicali per cercare nel paesaggio e nei monumenti «il vero volto della patria». Scrive Calamandrei: «C’era prima di tutto un grande amore, proprio direi una grande tenerezza, per questo paese dove anche la natura è diventata tutta una creazione umana …Era questo amore, che nelle nostre passeggiate ci guidava e ci commoveva; e lo sdegno contro la bestiale insolenza di chi era venuto a contaminare colla sua presenza l’oggetto di questo amore, e a preparar la catastrofe (che tutti sentivamo vicina) di questa patria, così degna di essere amata». Mentre il fascismo pervertiva il concetto stesso di nazione, si sentiva che era dal territorio – cioè dal suolo, dalla sua natura e dalla sua storia – che potevano rinascere un’idea di nazione e di patria.
È ciò che, dopo la Liberazione, riconosce la Costituzione, dove la Repubblica prende solennemente atto che siamo nazione per via di cultura. Accade nell’unico dei principi fondamentali dove appaia la parola «nazione», il 9. Dicendo che la «Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione» si iscrive nella Carta fondamentale la vicenda nazionale preunitaria. E lo si fa attraverso che cosa? Non attraverso la lingua, non attraverso il sangue, non attraverso la fede religiosa, ma attraverso la storia, l’arte e la loro inestricabile fusione con l’ambiente naturale italiano. In altre parole, la Repubblica prende atto del ruolo fondativo che la tradizione culturale e il suo sistematico nesso col territorio hanno avuto nella definizione stessa della nazione italiana, agli occhi dei propri membri e agli occhi degli stranieri.
Non è un’idea astratta. Chiunque abbia un figlio che frequenti una scuola pubblica vede con i propri occhi come bambini di ogni provenienza divengano giorno per giorno italiani: facendo propria la lingua delle parole, ma anche prendendo parte a quell’antico rapporto biunivoco per cui noi apparteniamo al suolo patrio, che a sua volta ci appartiene. Siamo tutti, da sempre, italiani per via di suolo e cultura.
La legge sullo ius soli si può certo discutere laddove (per esempio riferendosi al reddito del genitore non comunitario) rischia di introdurre una cittadinanza per censo. Ma la necessità di migliorarla ed ampliarla (ciò che si dovrà fare in seguito) non può certo indurre a dubitare della necessità di approvarla quanto prima: se non altro perché non fa che riconoscere un antico dato di fatto.
la Repubblica, 1 Luglio 2017