Occorre che ciascuno di noi provi a dare un contributo per individuare, nel buio delle sconfitte di questi ultimi anni, alcuni punti di riferimento. In un’epoca che vede il nichilismo allearsi con il turbo-capitalismo, andrebbero sottratti all’oblio, con enfasi illuminista e poi romantica, quei valori che dovrebbero illuminare la direzione progressista. Bisogna, infatti, armare la ragione e il cuore per lottare e provare a restituire dignità a chi non ha voce, ai subalterni, ai mercificati, a chi vorrebbe vivere con passione e misura la propria vita ma non può. A chi, se giovane, è costretto a fuggire come un latitante per cercare fortuna; oppure a rimanere, galleggiando nella zona grigia dell’alienazione, espropriato di quel motivo di umanità promesso da una filosofia liberale troppo debole, inetta, al servizio della conservazione e dei potenti.
Nulla di originale, lo sappiamo. Cose dette e ridette sino alla nausea. Anche oggi, dopotutto, non mancano i paladini delle cause impossibili, gli uomini dalle frasi scarlatte, i professionisti della retorica del cambiamento. Cosa manca? Il sentimento del valore. Chi enuncia ad alta voce il principio non lo vive in segreto, non lo sente. Chi sbandiera verità apodittiche ha perso la curiosità. Chi parla di un altro mondo possibile, in realtà non fa nulla per migliorare quello in cui vive, perché ha il cuore duro e il suo intrinseco non è sincero, non dice che è disposto a offrire spazio al nuovo, non dimostra di aver sete di giustizia. Molte anime progressiste balbettano la trama della questione sociale, ma vivono a proprio agio con le ingiustizie e coltivano un paradossale senso di responsabilità che offende i protagonisti del disagio.
Il lavoratore a progetto, lo studente precario, il disoccupato cronico, il talento demansionato, il migrante: corpi interi della società frammentata trovano conferma quotidiana del fatto che il vecchio imperativo di Gaetano Mosca continua a trionfare. La classe dei governanti, correlata alla classe economicamente privilegiata, istituisce una legge intenzionata a preservare «questa storia», la storia oligarchica dei soprusi e del consolidamento del potere. E gli altri? Chi pensa alla classe dei governati? Ricordate il suicidio di Michele? Forse no. Il caos della spettacolarizzazione non può fermarsi e mettere ordine. Eppure oggi, in un giorno qualunque, vorremmo ricordare Michele e tutti coloro che sono stati o saranno brutalmente violentati dal sistema.
Noi progressisti abbiamo davanti un bivio: se svoltiamo a destra saremo complici, ci inginocchieremo dinanzi alle politiche del «suicidio», alle scelte nichiliste gestite da un potere che appare invisibile; se svolteremo a sinistra continueremo a resistere, provando in collettivo ad avanzare, tenendo come bussola l’articolo 3 della Costituzione italiana.
In sintonia con la sobria e coraggiosa lezione di Enrico Berlinguer, la Sinistra non può rinunciare al destino dell’uguaglianza, che non vuol dire offrire un numero identico di scarpe a tutti i coinquilini di un Paese, ma coltivare politiche del rispetto, della dignità, della redistribuzione, della vita e non della sopravvivenza. Politiche che non regalino bonus della vergogna, ma che producano l’essenziale, politiche che dicano sul serio: «devi restare in Italia e noi faremo l’impossibile per trattenere qui la tua creatività e il tuo entusiasmo, dandoti un lavoro sicuro, che non è noioso, ma è la base anzitutto per la stabilità emotiva, il fondamento concreto per il tuo e il nostro progetto, senza broglio!».
È per questo che il fine della sinistra non può smarrirsi per strada. È vero: la storia va avanti e soltanto uno sciocco o un inconsapevole reazionario santifica strumenti obsoleti. Ma la storia non ci costringe a cambiare obiettivi, valori, a concepire l’eguaglianza come un ferrovecchio.
Ecco il vangelo di un autentico progressista: parlare agli sfruttati nelle vecchie e nuove catene di montaggio come alle coppie senza diritti civili, con parole precise, attente; rafforzare il sistema produttivo, contro le delocalizzazioni e lo smantellamento, la privatizzazione e desertificazione industriale attuata in questi anni; avviare un grande piano per il lavoro in cui lo Stato riconquisti il proprio ruolo di soggetto imprenditore e innovatore; difendere e rinnovare i contratti collettivi nazionali, tutelare il potere d’acquisto; diminuire l’orario di lavoro a parità di salario, riportando l’Italia almeno alla media europea; introdurre un reddito minimo garantito legato a politiche attive di reinserimento al lavoro: non una elemosina ma un argine al ricatto occupazionale e al lavoro nero; attuare una politica fiscale rigorosamente progressiva e redistributiva, riformulando le aliquote, battendo evasione ed elusione fiscale, tutelando i redditi da lavoro e toccando con forza profitti e rendite. E poi il welfare, la sanità per tutti, l’istruzione per tutti, pensioni eque, jus soli, testamento biologico e pieni diritti per chiunque, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale.
Nessun frammento delle classi che vogliamo rappresentare e coinvolgere in un grande progetto riformatore deve essere lasciato in balia di chissà quale mercante postmoderno. Se la sinistra non si ribella con veemenza a questa curiosa trasmigrazione dai luoghi naturali a quelli artificiali, in cui essa – senza accorgersene – diventa straniera, allora è una falsa sinistra, o una sinistra liquida. I salotti che ospitano la «buona cultura» simboleggiano spesso il nulla, l’indifferente, se non hanno il coraggio di ricevere con empatia la divisa sudata e sporca del lavoratore.
Serve una sinistra critica, robusta, che parli il linguaggio di chi vive ai margini, che si immerga nelle biografie spezzate. Non una sinistra d’élite, che si rinchiude nel Palazzo a firmare autografi o proclamare vuote giaculatorie, ma una sinistra popolare che torni a confondersi nell’anonimato, a scoprire la bellezza degli umili, e al contempo a riflettere sui problemi concreti. Occorre far rinascere una forza laica, illuminista, passionale, vicina ai deboli, ottimista ma severa, convinta che la notte lascerà finalmente il posto al «mattino», un’ansia di verità che rimprovera il potente e sorride a chi geme.