Pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Sandra Bonsanti “Il Canto della libertà (Chiarelettere)
Socrate: Di qua, lasciamo la strada e andiamo lungo l’Ilisso, dove troveremo un posto che ci piaccia e tranquillo, ci metteremo a sedere.
Fedro: È proprio una fortuna, pare, che io mi trovassi scalzo; tu già lo sei sempre.
Così ci è più facile andar coi piedi nell’ acqua. […] Vedi laggiù quell’ altissimo platano?
Socrate: Ebbene?
Fedro: Lì c’ è ombra e un po’ di brezza, e anche erba da potersi sedere o sdraiare, se vogliamo. […]
Il vecchio professore doveva aver letto molte volte quel famoso testo ai suoi studenti. La voce scorreva morbida nella piccola libreria che ci ospitava. Posò i fogli sul tavolino che lo separava dalla fila di sedie – una decina, forse quindici – e ci osservò con uno sguardo timido, quasi modesto. Non ci conoscevamo, nessuno di noi si conosceva.
Io e forse anche qualcun altro eravamo stati attratti dal titolo dato a quegli incontri: “Saffo e la scoperta della libertà nell’antica Grecia. Un ciclo di dieci lezioni, e qualche appendice, se saranno richieste”. Non so se fosse stato il proprietario della libreria o il professore stesso a deciderlo, magari lo avevano scelto insieme. Interruppe dunque la lettura e cercò il nostro sguardo, ma per poco; riprese subito, infatti, come se il silenzio, per quanto breve, lo imbarazzasse: “Dunque, questo che vi ho letto in una traduzione degli anni Trenta del Novecento è l’ unico paesaggio mai descritto da Platone. E avete ascoltato con quanta delicatezza e precisione… fino a trasportare anche noi fra quelle cicale e il canto del ruscello. Vi ricordo che sono passati circa due millenni e mezzo”.
“La maggior parte delle cose che racconterò in questi giorni a quelli di voi che insisteranno a volermi ascoltare vi potrebbe anche annoiare, ma dovrete essere voi a dirmi se questo accadrà, perché allora non insisterei… La sostanza, e anche alcuni particolari, è ciò che ricordo delle prime lezioni di letteratura greca che tenne il mio insegnante, nell’ ottobre del 1945, alla facoltà di Lettere di Roma. A volte le parole sono proprio quelle, alcune le segnai sul mio quaderno, altre invece le ho tenute a mente, direi, per tutta la vita. E dunque non posso sbagliarle”.
Fu a quel punto che, dopo aver armeggiato nella tasca della giacca, tirò fuori un cartoncino e ce lo sventolò davanti, con un gesto rapido, come quello del prestigiatore che vuole mostrare, ma non troppo, e disse: “Questo sono io a quel tempo…”. Era quasi impossibile distinguere il giovane della fotografia (…). Io intravidi poco più di un’ ombra appoggiata a qualcosa. Ma lui aggiunse con una certa fierezza: “… E avevo gli occhi celesti”. Fece una breve pausa e sospirò: “Al di là del muro che vedete bene, il muro dell’università, e oltre il lungo bancone con i libri usati c’erano le macerie della guerra. Una guerra devastante dopo la quale, come fu detto, non rimaneva nulla di umano, niente che non fosse da rifare. Guerra di liberazione. E la costruzione della libertà sembrava a tutti una sfida molto faticosa: ci si fermava e poi si ripartiva, a piccoli passi, fra dubbi, incertezze, discussioni anche violente”.
“La libertà: una parola così grande e così antica. Noi non eravamo pronti; dopo la lunga sofferenza forse avevamo pensato che quella parola tanto invocata potesse avere anche un corpo, una dimensione fisica. (…) Intanto noi studenti avevamo sete d’ imparare e ci chiedevamo quale sarebbe stato il futuro.
E quale ruolo potevamo avere nel costruirlo, nell’immaginarlo, questo futuro. Libero, lo volevamo, e giusto. Ma, ripeto, sapevamo davvero noi, cresciuti nel ventennio di Mussolini, cosa fossero libertà e giustizia?”.
Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2016