Una teoria scientifica e delle previsioni basate su di una teoria scientifica possono essere giuste o sbagliate. Questi termini non hanno un valore assoluto: una previsione è tanto più giusta quanto più è confermata dai fatti, e tanto più sbagliata quanto meno lo è. A questa bipartizione Wolfgang Pauli ha aggiunto una terza categoria, quella delle teorie o delle previsioni che non sono “neanche sbagliate”: nel senso che sono talmente poco teoricamente fondate e talmente refrattarie a qualsiasi verifica empirica da rendere impossibile stabilire se sono appunto giuste o sbagliate. Un esempio dovuto a Bertrand Russell è l’ipotesi che fra la Terra e Marte orbiti una piccola teiera rossa. Se anche fosse vero questo non darebbe origine a nessun fenomeno osservabile, la cui presenza o assenza testimonierebbe della verità o falsità dell’ipotesi: e quindi non si può affermare su base sperimentale che l’ipotesi sia falsa.
Anche in economia è possibile distinguere fra previsioni giuste e previsioni sbagliate, anche se queste categorie vanno prese con cautele maggiori che non in fisica o in biologia. Per esempio, la previsione “in una fase di recessione ridurre la spesa pubblica ha effetti espansivi” è sbagliata, nel senso che si è argomentato teoricamente e verificato empiricamente che normalmente non è così. Ha quindi ragione di esistere anche in economia la categoria delle previsioni che non sono “neanche sbagliate”: si tratta di previsioni basate su dati talmente incerti o male interpretati e su ipotesi teoriche talmente campate in aria da rendere impossibile passare logicamente dalle ipotesi teoriche e dai dati alle conclusioni suggerite.
Un esempio particolarmente interessante, per vari motivi, di previsioni neanche sbagliate in economia è stato recentemente fornito da un contributo del Centro Studi della Confindustria, firmato dal suo direttore, Luca Paolazzi. Si tratta di una serie di slides sull’andamento dell’economia italiana, presentata come il n. 26 della collana Scenari Economici.
Le ultime slides della serie contengono delle previsioni per il caso di una vittoria del No al referendum di ottobre. Sono previsioni molto pessimistiche e molto circostanziate: per esempio, una perdita di 589 euro di pil pro-capite e di 577.000 unità di lavoro per il 2019. La fonte di queste cifre non è indicata. Sono indicate solo le ipotesi su cui si basano, e cioè “caos politico”, “aumento dello spread”, “fuga di capitali”, “crollo della fiducia” e “svalutazione”. Per correttezza deontologica si sarebbe dovuto fornire una quantificazione e una qualificazione rigorose di queste ipotesi.
Ammesso che ciò fosse difficile per motivi di spazio, sarebbe stato imprescindibile fornire l’indicazione del documento dove esse vengono esaminate. Invece nessuna fonte è indicata. In queste condizioni i lettori hanno il diritto (e anzi il dovere) di ritenere che queste previsioni non siano neanche sbagliate; nella scienza, incluso in questo caso a pieno titolo la scienza economica, nessuna conclusione può pretendere di essere accettata se non è chiaramente indicato il modo in cui è stata raggiunta, e se tale modo non è convincente.
Sarà compito dell’autore delle slides, se riterrà di doverlo fare, fornire la documentazione necessaria a modificare quell’opinione. Anche per sfatare il sospetto, plausibile data la scorrettezza dell’elaborazione, che queste previsioni saltino un passaggio: e cioè che in caso di vittoria del No la Confindustria propizierebbe gli scenari catastrofici ipotizzati. In tal caso ovviamente la responsabilità non sarebbe della vittoria del No ma della Confindustria; e forse vale la pena ricordare che la serrata per fini politici è un comportamento contrario alla Costituzione, e che l’aggiotaggio e la turbativa dei mercati sono reati.
Quella appena discussa non è l’unica violazione della deontologia presente in questa vicenda. I dati sono forniti ufficialmente dalla Confindustria: come tali si ammantano di una credibilità che non avrebbero se fossero altrettanto campati in aria -se lo sono- ma forniti da fonti meno qualificate. C’è quindi un esplicito uso strumentale della pseudo-scienza; cosa che un ufficio studi serio non dovrebbe consentire. Andiamo avanti. Anche la maggior parte dei giornalisti italiani che hanno riferito di queste diapositive hanno violato i criteri minimi della deontologia professionale. In altri paesi i loro colleghi avrebbero preteso di valutare le fonti dei dati prima di pubblicarli. Infine, così come l’ordine dei medici penalizza o dovrebbe penalizzare l’uso di pratiche stregonesche da parte di un medico, la Comunità degli economisti dovrebbe intervenire per prendere le distanze da un documento che getta una luce sinistra sull’attendibilità delle previsioni economiche serie. Questa comunità non esiste in forma strutturata: è quindi compito dei singoli economisti, quando possano farlo, prendere le distanze da questo modo di procedere. Io lo faccio con questo scritto.
Una considerazione più generale. Degli studiosi accreditati possono produrre risultati incontrollabili utili a fini politici di parte, e dei giornalisti ignoranti o complici possono divulgarli, senza che esistano anticorpi che valgano a segnalare all’opinione pubblica la mancanza di valore di questi risultati. E’ l’ennesimo segnale della presenza di seri limiti nel funzionamento della nostra democrazia.
Nota: il 3 luglio 2016 ho chiesto al Centro Studi della Confindustria che mi venisse indicato dove reperire la documentazione su cui si basano le elaborazioni citate. A tutt’oggi (10 luglio) non ho avuto risposta.
(*) Guido Ortona è professore ordinario di politica economica Università del Piemonte Orientale
12 luglio 2016