Ai tempi di B., il miglior modo per mettere in crisi un elettore o un simpatizzante berlusconiano era domandargli a bruciapelo: “Dimmi tre sue riforme che ti abbiano cambiato la vita in meglio”. Seguivano lunghi attimi di panico, esitazioni, “dunque… vediamo…”. Il più delle volte, per disperazione, venivano fuori la patente a punti e la legge Sirchia contro il fumo nei locali pubblici, almeno fra i non automobilisti e i non fumatori. Per il resto niente, encefalogrammi piatti. Chi si azzardava a dire “le grandi opere” veniva subissato di risate e fischi, visto che lo sapevano tutti che quasi nulla s’era mosso (e per fortuna, visto che la famigerata Legge Obiettivo prometteva il Ponte sullo Stretto). Matteo Renzi, dopo quasi due anni di governo, è messo un po’ meglio di B. dopo vent’anni. Può vantare gli 80 euro, che hanno lievemente migliorato la vita a milioni di famiglie; l’assunzione di migliaia di precari della scuola, anche se molti han dovuto emigrare lontano da casa; gli incentivi del Jobs Act alle imprese, che se non hanno creato nuovi posti di lavoro (appena 2 mila nuovi occupati fissi in un anno), hanno almeno garantito a migliaia di precari un contratto un po’ meno instabile (chiamare “stabile” quello a tutele crescenti, dopo l’abolizione dell’articolo 18, è troppo); e la prudenza nella politica estera, che tiene l’Italia lontano dal salto nel buio dei bombardamenti anti-Isis, tanto inutili sul piano militare quanto imbarazzanti i regimi tirannici alleati, e dannosi per le rappresaglie terroristiche a cui ci esporrebbero.
Eppure, anziché insistere sulle poche scelte di governo che hanno cambiato in meglio la vita di alcuni italiani, Renzi ha detto a fine anno che, in quello nuovo, punterà tutto sulle “riforme” elettorale e costituzionale di Boschi & Verdini. Arrivando a legare la sua permanenza a Palazzo Chigi alla vittoria del Sì nel referendum confermativo che dovrebbe tenersi in ottobre. Una scelta bizzarra e incomprensibile, per varie ragioni. 1) Il nuovo Senato, così come l’Italicum, non sposterà di un millimetro la vita degli italiani. 2) Le due “riforme” sono talmente invecchiate, a furia di passaggi e ripassaggi da una Camera all’altra, che la gente non vuole più neppure sentirne parlare. 3) Le leggi elettorali e le riforme della Costituzione, come sa qualunque studente di educazione civica alle medie, non sono materia di governo: sono affare del Parlamento, trattandosi di regole del gioco che tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, devono concorrere a scrivere.
In che senso dunque Renzi dice che, se al referendum di ottobre dovessero vincere i No, “considererei fallita la mia esperienza politica” e si ritirerebbe a vita privata? Noi, che pure l’abbiamo criticato spesso, cioè tutte le volte che pensavamo lo meritasse, e continueremo a farlo nel 2016, non abbiamo mai detto che il suo governo fosse illegittimo e dovesse andare a casa: finchè gode di una maggioranza parlamentare, per quanto raccogliticcia, cangiante, trasformista e viziata dal peccato originale del premio di maggioranza del Porcellum che ha drogato i numeri del Pd alla Camera e al Senato ed è stato cancellato dalla Consulta, Renzi ha il diritto-dovere di governare. Il fatto che non si sia mai presentato agli elettori con un suo programma di governo, ma sia andato a Palazzo Chigi con una manovra di palazzo, dovrebbe semmai indurlo a un surplus di prudenza quando mette mano alle regole, ma non gli toglie la legittimità a governare, che gli conferisce la fiducia delle Camere. Quindi non ci sarebbe nulla di male se Renzi restasse a Palazzo Chigi anche in caso di vittoria del No al referendum. Ma a un patto: che il premier e il suo governo restino neutrali nella campagna elettorale, com’è loro dovere per motivi costituzionali e anche igienici.
Se invece, come Renzi ha sciaguratamente annunciato, intende truccare la bilancia gettando sul piatto del Sì la spada del suo strapotere, è naturale che dovrebbe andarsene a casa se prevalessero i No. E questo basta a mostrare l’assurdità di un’invasione di campo che ancora speriamo non definitiva (potrebbe farglielo capire il presidente Mattarella, che di Costituzione se ne intende e infatti, con qualche silenzio di troppo, sta ripristinando la Repubblica dopo 9 anni di monarchia assoluta). Perchè mai l’Italia dovrebbe ritrovarsi senza governo fra 10 mesi se gli italiani bocciassero un Senato senza poteri, imbottito di nominati (dai consigli regionali, cioè dai partiti) e regolato da norme così confuse da innescare raffiche di conflitti di competenze con la Camera e con gli enti locali? Che c’entra il governo del Paese col sacrosanto No a una controriforma che peggiora la politica, elimina i poteri di controllo e degrada la democrazia?
Qualunque scelta compirà Renzi – astenersi dalla campagna elettorale o minacciare gli elettori trasformando un voto tecnico in un plebiscito (quello sì populista) pro o contro di lui – il nostro giornale sa già che cosa fare. Siamo nati con una linea politica precisa: la difesa della Costituzione repubblicana del 1948, che si può aggiornare in alcuni punti, ma non snaturare e stravolgere riscrivendone (coi piedi) metà a colpi di maggioranza (tra l’altro finta). Dunque, con tutto il fiato che abbiamo in gola, daremo voce ai Comitati del No. L’abbiamo fatto nel 2006 (molti di noi scrivevano sull’Unità o sull’Espresso) contribuendo a respingere la controriforma berlusconiana. Lo rifaremo ora che l’attentato alla Carta viene dall’altra parte. Se poi il No vincerà e cancellerà non solo una riforma pericolosa, ma anche Renzi, l’avrà voluto lui, non noi.