Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la letteratura “Ma la libertà non era dietro l’angolo”

04 Dicembre 2015

Il racconto dei destini di uomini e donne durante la guerra e, oggi, di cosa vuol dire vivere (e scrivere) ai tempi di Lukashenko e di Putin.

Alla vigilia del suo viaggio a Stoccolma, dove ritirerà il premio Nobel per la letteratura, confessa: “Avrebbero dovuto darlo a Kapuscinski”

SVETLANA ALEKSIEVIC, NOBEL PER LA LETTERATURA 2015 (ritirerà il premio a Stoccolma il prossimo10 dicembre) abita all’ottavo piano di un grigio palazzo in stile sovietico, di apparente razionalità, ma di una certa povertà e trascuratezza formale, come lo fu il mondo sovietico. È tornata a Minsk, la scrittrice e giornalista, pochi anni fa, dopo un lungo periodo di peregrinazioni in Europa occidentale, «perché nonostante tutto, nonostante Lukashenko (il presidente dittatore, ex direttore di un kolkoz, che l’ha accusata di aver denigrato il popolo bielorusso, ndr), questa è casa mia». E anche la capitale di questo piccolo Paese, tutto boschi e paludi ai margini del nostro mondo, dove la Storia è stata poco clemente, perché qui la guerra partigiana e le rappresaglie dei tedeschi furono di grande atrocità, sembra un posto in cui l’orologio batte ancora l’ora sovietica. I simboli e i monumenti costruiti nell’epoca dell’Urss dominano il paesaggio, così come la scenografia delle apparizioni del presidente richiama i riti moscoviti ai tempi di Breznev. E le strade portano i nomi dei capi di partito e degli apparati di sicurezza comunisti.
Aleksievic, con la storia ha un rapporto intimo, se non altro perché i suoi libri sono una narrazione corale «della storia dell’Utopia rossa», e perché i suoi maestri — ne vuole subito annoverare due: Ales Adamovic e Vasilij Bykov — sono stati scrittori bielorussi che come pochi altri hanno raccontato i destini degli uomini e donne comuni durante la guerra; e l’hanno fatto senza retorica patriottarda, e per questo non erano ben visti dal regime. O forse, i maestri erano tre, perché quando sente dire che il primo ad aver parlato al cronista di lei come candidato al Nobel fu un grande reporter polacco, nato pure lui in Bielorussia, Ryszard Kapuscinski, Aleksievic, con la voce triste, dice: «Avrebbe dovuto avere lui il premio. Ma è morto, e così gli sono subentrata io».
Del suo Paese e della Storia dice questo: «Siamo nelle mani di Lukashenko: un po’ dittatura, qualche elemento di totalitarismo, un po’ socialismo. Siamo un paese socialista dove la gente ha una mentalità sovietica, veste secondo la moda sovietica e ha in casa mobili sovietici».
Parliamo della storia dell’Utopia. Il comunismo tentava di spostare in avanti le lancette dell’orologio russo, notoriamente lento e arretrato, e fissarle sul fuso orario occidentale?
«Sì. Il progetto era quello di modernizzare il paese, agganciare l’Europa, superarla nello sviluppo economico e fondare un’umanità nuova e giusta. Finì in un oceano di sangue e in milioni di esseri umani morti».
Un grande romantico dell’Ottocento, Michail Lermontov, definiva la Russia “paese di schiavi e padroni”. È mai esistita un’alternativa?
«Dalla metà anni degli Ottanta e fino ai primi Novanta eravamo convinti che esistesse. Sto parlando del periodo della perestrojka, di Gorbaciov, dell’intellighenzia progressista che lo appoggiava. Pensavamo che la libertà fosse dietro l’angolo, che sarebbe bastato togliere il potere ai comunisti per cambiare radicalmente il paese. Siamo stati ingenui. Dopo i decenni del Gulag, preceduti da secoli di servitù della gleba e da una fede dominata dalla chiesa ortodossa, asservita al potere statale, non si poteva conquistare, all’improvviso, la libertà. La libertà è una pianta che ha bisogno del tempo per crescere. Così è arrivato Putin con l’antica retorica: “Grande Russia, Stato forte”. Ai tempi di Gorbaciov ci chiedevamo: ma perché il popolo non parla? Oggi il popolo parla: appoggia Putin, perché crede alle sue parole da pifferaio magico. E guardi, che dietro a Putin, ci sono forze ancora peggiori e più pericolose».
Sta dicendo che in Russia i demoni sono sempre presenti? Non solo nel libro di Dostoevskij, ma anche in “Il Maestro e Margherita”, Bulgakov fa arrivare il diavolo a Mosca. C’è qualcosa di diabolico nell’animo russo?
«Più che una domanda lei ha fatto un’annotazione, che mi sembra precisa. Sono stata ora a Mosca. La sera, in strada si vedono pattuglie di persone, sembrano cosacchi, che girano con in mano icone sacre e fruste. Ho chiesto loro: chi state cercando? “Coloro che offendono la Chiesa”, mi hanno risposto. Intendono per esempio registi di teatro famosi, o scrittori contemporanei. Hanno inventato una parola, “GayEuropa”, che dimostra tutto il disprezzo per l’Occidente e la convinzione che il popolo russo salverà il mondo dalle «perversioni». Mi preoccupa quest’atmosfera militarista, violenta. Aggiunga la questione dello spazio. Lo spazio russo è sterminato. Viaggiando in Siberia, nella taiga, ci sono territori grandi come intere nazioni, disabitati. Rispetto a questo spazi, l’uomo è niente. La vita umana in Russia vale poco».
Sta dicendo che più che un “uomo sovietico” esiste un uomo russo?
«Diceva Dostoevskij: “è ampio l’uomo russo”. In- tendeva dire: l’uomo russo non conosce i limiti e quindi finisce per accettare il giogo delle autorità. Il paradosso è solo apparente, perché l’uomo russo tende a scambiare la libertà per l’arbitrio. E stenta a capire i valori evidenti in Occidente: come, ad esempio, il fatto che senza lavorare non si possono avere i soldi, che il lavoro è frutto di un’atroce disciplina. Era impressionante questa incomprensione quando ai tempi della perestrojka vedevo arrivare i primi imprenditori occidentali, e i russi non capivano cosa volessero».
È questa l’origine della nostalgia per Stalin?
«No. La colpa è del capitalismo selvaggio. Il cinque per cento della popolazione possiede tutto. Ai tempi dell’Urss le cure mediche, le scuole, l’istruzione erano gratis: oggi per curarsi e per far studiare i figli bisogna pagare, e i soldi non ci sono. E allora l’unica alternativa è la nostalgia, perché il passato è l’unica cosa che non assomiglia al presente e che la gente conosca».
Parliamo di lei. È una scrittrice russa, che però non ha mai vissuto in Russia. O forse, da queste parti è normale. Il massimo poeta polacco di tutti i tempi, Adam Mickiewicz, era lituano e non ha mai messo piede in Polonia.
«Ho tre case. Per la maggior parte della mia vita ho vissuto in Bielorussia, la patria di mio padre. Poi c’è l’Ucraina dove sono nata. Mia madre era ucraina e io ho amato moltissimo sua madre, mia nonna. E poi la mia infanzia l’ho trascorsa in Ucraina e ho presente il sapore dei cibi e i profumi delle piante dell’Ucraina. La mia terza casa è la cultura russa. Sono cresciuta come persona sui libri di Cechov e di Dostoevskij».
Il suo Macondo dove è? Lei racconta spesso della panchina di un paesino dove stavano sedute le donne che parlavano della guerra…
«I miei genitori erano maestri di scuola del villaggio. Un paesino bielorusso. E le donne parlavano dei loro uomini, dei partigiani. Era l’inizio della mia strada da scrittrice. Nel libro, appena uscito da voi in Italia, ma scritto nel 1983, La guerra non ha il volto di donna, parlo anche di donne russe, tatare, zingare».
La narrazione delle donne è differente dalla narrazione maschile?
«Certo. Quando cominciai a lavorare su quel libro, avevo notato che le donne volevano fare un racconto maschile. Parlavano di come i loro uomini facessero la guerra. Esisteva solo il canone maschile della narrazione bellica. Io le ho indotte a raccontare invece la loro guerra. Qual è la differenza? Il maschio è educato per diventare soldato, per difendere, per combattere. Per il maschio, specie nell’ex Urss, ma anche in Russia oggi, la cultura della guerra è normale. La Storia è una storia delle guerre maschili. Le donne invece non erano preparate alla guerra. Per cui avevano reazioni pure, ingenue. Certo, erano donne soldato, andavano a difendere la patria e combattevano. Ma le donne hanno sempre saputo che la guerra significa uccidere esseri umani. Mi raccontavano come era difficile vedere un campo dopo la battaglia con tutti questi morti: russi e tedeschi».
Avevano pietà anche per i tedeschi?
«A scuola mi insegnavano a odiare i tedeschi. Mia nonna ucraina invece mi raccontava quanto le facessero pietà questi ragazzi, quasi bambini, costretti a fare i soldati e a morire. E quando una volta vide un soldatino che stava piangendo,allora gli ha dato due uova per consolarlo. La donna sa il valore della vita perché è la donna a dare la vita».
Qual è il limite alla sofferenza che una persona può sopportare?
«Una persona può sopportare moltissimo. Ma la sofferenza non ti fa più forte. Per diventare forte occorre invece la gioia. La sofferenza è disumana».
E invece il limite di quello che può esprimere la lingua umana?
«Amo dire: esiste la narrazione della catastrofe e la catastrofe della narrazione. Le due categorie non vanno confuse. Ecco, noi non abbiamo altro strumento che la parola. Però non tutto si può raccontare».
Perché?
«Perché la stessa nozione di realtà non è chiara né evidente. Lo dicono perfino gli scienziati. Una persona può vedere solo frammenti di quello che succede a lei e al mondo intorno, ma non la totalità della vita e dell’evento. Io scrivo romanzi corali, romanzi composti da tante voci perché sono consapevole che la verità non può essere contenuta in un solo cervello e un solo cuore. Ci sono tante verità, diverse tra di loro e perfino mutevoli. Amo il metodo di Dostoevskij. Nei suoi libri, ogni protagonista narra, anzi urla, la sua particolare verità».
Non tanto ascoltando, quanto scrivendo, perché scrivendo lei ha travalicato il confine tra il giornalismo e la grande letteratura, cosa ha imparato sulla morte e sull’amore, i due grandi temi della letteratura appunto, e delle vite di ciascuno di noi?
«Ho cercato di capire anche cosa è il Male. Posso dire questo: ho compreso quanto l’uomo sia bellissimo e al contempo terribile».
Ha detto che non possiamo rinunciare alla parola. La parola può salvare il mondo?
«Neanche la parola di Cristo ha salvato il mondo. Ma dobbiamo agire come se fossimo convinti che la nostra parola lo possa invece fare. Se non diamo il nome alle cose, la situazione del mondo sarebbe ancora peggiore di quanto lo sia».

la Repubblica, 29 novembre 2015

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