Ricordate l’episodio: in un comizio, Calderoli insulta l’allora Ministra Kyenge, che ha il torto di essere donna e di colore, paragonandola ad un “orango“. Ne nasce un processo (anche se la Kyenge non sporge querela, quando c’è di mezzo il razzismo, il procedimento penale nasce e prosegue d’ufficio ). L’imputazione è diffamazione, con la speciale aggravante prevista dalla legge “Mancino“ ( art. 3, comma 1 ) che prevede l’aumento della pena per i reati puniti con pena diversa da quella dell’ergastolo, con finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso. La stessa legge “Mancino“ (art. 6) prevede che per i reati aggravati dalla circostanza di cui all’art.3, si proceda d’ufficio. Peraltro, Calderoli è parlamentare; e dunque occorre, non l’autorizzazione a procedere, come hanno scritto molti superficiali, ma un giudizio del Parlamento (art. 68 della Costituzione ), limitato alla valutazione se si tratti di “ opinioni espresse o voti dati nell’esercizio delle loro funzioni “. Se il giudizio è positivo, scatta la cosiddetta insindacabilità e quindi il processo non può andare avanti. Sui limiti dell’insindacabilità, si è pronunciata numerosissime volte la Corte Costituzionale, con rigore e precisione, spesso contro il parere del Parlamento, che ha una certa tendenza a dichiarare tutti (o quasi tutti) insindacabili. Il rigore è necessario perché è in gioco un altro diritto, che spetta ad ogni cittadino, quello cioè di avere un giudice ed un processo, insomma di chiedere, possibilmente, di ottenere giustizia (art. 24 della Costituzione ). Nel caso specifico, che cosa ha fatto il Senato? Invece di limitarsi a valutare se si trattasse di opinioni espresse “in servizio“, è entrata nel merito, ha separato l’aggravante dalla diffamazione, ha votato sull’aggravante escludendola, così facendo cadere la procedibilità d’ufficio, per la diffamazione. Insomma, niente più processo. Si tratta di uno straripamento di potere, rispetto a quanto previsto dall’art. 68. Il giudizio se ci fosse o meno l’aggravante spettava al Magistrato e solo a lui, ma il Senato si è fatto giudice, ben sapendo che così sarebbe finito tutto, perché – come ho detto – manca la querela, che la Kyenge, a suo tempo non aveva presentato. E’ avvenuto, in sostanza, un fatto molto grave, proprio da parte dei rappresentanti del popolo. La cosa ancora più grave è che questo comportamento riguarda l’aggravante: i parlamentari hanno escluso, in pratica, che la frase pronunciata da Calderoli avesse un contenuto razzista. Lo capirebbe anche un bambino che dire ad una donna che assomiglia ad un orango non è un complimento; ma dirlo ad una donna “nera“ è assai più di un insulto, è la manifestazione di una volontà di denigrazione, con profondi connotati di razzismo. Essere indulgenti su queste cose è gravissimo, perché in Parlamento si dovrebbe essere particolarmente severi in una materia così delicata e così puntigliosamente regolata dall’art. 3 della Costituzione. Come si fa a sostenere che dare dell’orango ad una Ministra, è insindacabile in quanto la frase è stata detta nell’esercizio delle proprie funzioni? E non è pensabile che questo avvenga, quando dovremmo essere tutti (a cominciare proprio dal Parlamento) ad essere impegnati a fondo contro ogni forma di razzismo o di xenofobia. Naturalmente, non voglio neppure chiedermi perché sia stato fatto questo “favore“ a Calderoli; se – come alcuni giornali insinuano – ci sia stata una “captatio benevolentiae“ per non farlo insistere sugli emendamenti che ha presentato sulla riforma del Senato. Queste sono ipotesi e supposizioni, che tali restano. A me interessa il fatto oggettivo, che il Vicepresidente del Senato si renda protagonista di un episodio vergognoso e che i suoi colleghi lo assolvano, impedendo alla persona così gravemente offesa, di ottenere giustizia. Povera Italia!
Anpi News n. 174 – 22/29 settembre 2015