Il testo di modifiche al processo penale approvato ieri dalla Camera è rimasto a lungo bloccato sullo scoglio duro delle intercettazioni, che, si ritiene, troppo spesso vengono pubblicate. L’intenzione di limitarle è stata accompagnata da un’eccessiva semplificazione del problema, come si è visto sulla questione che, in mancanza di accordo nella maggioranza, ha spinto a non sciogliere il nodo e dar delega al governo. Trovi il governo la soluzione, se non la troverà il Senato che ora esaminerà il provvedimento. Si tratta del modo di selezionare, tra le conversazioni intercettate, quelle utili al processo cancellando le altre. A quella selezione è legato anche il regime della pubblicabilità. V’era alla Camera chi voleva eliminare la attuale udienza in cui le parti esprimono il loro parere prima che il giudice decida. Ma il processo equo è retto da un principio costituzionale essenziale, quello del contraddittorio.
Il giudice non può decidere se non dopo avere sentito le parti, il pubblico ministero, gli avvocati delle parti civili, gli avvocati degli imputati. Sarebbe impensabile che il giudice da solo scegliesse ciò che serve o non serve al processo e, pensando che sia irrilevante, escludesse questa o quella conversazione. Perché la decisione del giudice tenga conto degli argomenti di tutte le parti, occorre trovare il modo di far loro conoscere le conversazioni intercettate e poi raccogliere le loro opinioni sull’utilità di ciascuna. Ma, si dice, l’udienza con la partecipazione delle parti fa scappare fuori dell’ufficio del giudice conversazioni che, essendo inutili al processo, dovrebbero essere cancellate. Se troppe persone ne vengono a conoscenza, diviene impossibile garantire il segreto o scoprire chi lo ha violato. Tuttavia qualunque procedura venga immaginata, una cosa è certa. Non è possibile selezionare le conversazioni intercettate senza che il giudice che decide senta tutte le parti, dopo che queste ne sono state messe a conoscenza.
Non solo su questo punto occorrerebbe maggiormente considerare che l’ascolto e la registrazione delle comunicazioni che intercorrono tra le persone, si pongono all’incrocio di esigenze numerose e confliggenti. La Costituzione riconosce come inviolabile la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione. Nel medesimo senso sono le convenzioni internazionali in materia di diritti fondamentali. Ma la stessa Costituzione ammette limitazioni al diritto alla riservatezza delle comunicazioni. Vi sono infatti necessità che giustificano intromissioni da parte della autorità pubblica. La più nota è quella che riguarda le indagini sui reati e i conseguenti processi. La Costituzione non indica espressamente quali siano le ragioni che giustificano l’intercettazione di comunicazioni. Solo impone che a ordinarla sia l’autorità giudiziaria, con un atto motivato, con le garanzie previste dalla legge. Tra quelle garanzie rientrano i limiti posti alla pubblicizzazione delle conversazioni intercettate. Si tratta di limiti e non di divieto assoluto, come dimostra la regola della pubblicità dei processi (che conosce poche eccezioni), che espongono al pubblico fatti anche estremamente delicati che normalmente sarebbero coperti dalla riservatezza cui in linea di principio ha diritto ogni persona. Ma ancora dalla Costituzione emergono altri legittimi limiti alla riservatezza. La libertà della stampa implica evidentemente anche quella di pubblicare fatti e opinioni che le persone preferirebbero mantenere segrete o almeno non conosciute dal grande pubblico. Il giornalista non può offendere la reputazione delle persone, se non violando le regole deontologiche della sua professione e rischiando una querela per diffamazione, ma vi è una grande area di fatti di cui comunque può dare notizia, perché sono di interesse pubblico. Non si tratta di fatti utili a soddisfare la curiosità del pubblico, ma che riguardano personaggi della vita politica, economica, sociale e che in una democrazia il pubblico deve poter conoscere. Ogni divieto di pubblicazione dell’esito delle intercettazioni legittimamente disposte dal magistrato deve confrontarsi con l’obbligo di non interferire con il diritto di dare e di ricevere la maggior informazione possibile su fatti di interesse pubblico. I divieti e le sanzioni che esistono e quelli che introduce la nuova legge non possono entrare in collisione con la libertà di informare e di essere informati. E i fatti di interesse pubblico non sono solo quelli che riguardano gli indagati nel processo penale o che sono penalmente rilevanti, come invece si è preso a dire come fosse ovvio. Non è vero e eccessi e abusi nelle pubblicazioni non dovrebbero consentire soluzioni che impediscano l’uscita di notizie utili, anche se scomode. Spesso vediamo fare scandalo la pubblicazione di certi fatti, piuttosto che i fatti stessi.
La Stampa, 24 settembre 2015