In fondo, a pensarci bene, i doveri di oggi sono quelli di sempre: informare, raccontare, far conoscere e aiutare lettori e ascoltatori a capire, a creare collegamenti mentali, ad approfondire i singoli fenomeni e a conoscerli da vicino, unendo all’analisi del presente una seria riflessione sui possibili sviluppi futuri di vicende che, come dovrebbe essere ormai chiaro a tutti, sono destinate ad accompagnarci nei prossimi decenni. Ciò che differisce rispetto al passato è, come detto, la complessità degli avvenimenti che siamo chiamati a raccontare, il loro intrecciarsi, il loro avere un impatto sulla nostra quotidianità pur avvenendo a migliaia di chilometri di distanza; il che costringe ad un profondo esame di coscienza un’informazione che troppo spesso pecca ancora di provincialismo, in una sorta di compiacimento autoreferenziale che tende a tenere lontane dai riflettori questioni che poi esplodono e irrompono inesorabilmente nelle nostre vite, lasciandoci attoniti solo perché sostanzialmente disinformati sulla loro natura e le loro radici.
Poniamoci, dunque, la domanda: chi sono oggi i migranti? Da dove fuggono e quali ragioni li spingono a vendere tutto, a lasciare le proprie abitazioni e i propri paesi per imbarcarsi su carrette pericolosissime a bordo delle quali il rischio di affondare è piuttosto elevato? Perché se non troveremo risposte adeguate a questi quesiti, difficilmente saremo in grado di svolgere una narrazione onesta e rispettosa di un dramma collettivo che ormai ha ampiamente valicato i confini dell’emergenza umanitaria, divenendo la principale questione socio-politica del nostro tempo e interrogando le nostre coscienze su quale sarà l’avvenire dell’Europa. Volenti o nolenti, siamo ormai entrati in contatto con una realtà che non ha più nulla di emergenziale, in quanto è una componente strutturale della nostra epoca e del nostro contesto civico: vediamo i barconi al largo delle nostre coste e siamo subito immersi nella barbarie da cui scappano coloro che li gremiscono, come se le bombe, gli stupri, le violenze, gli omicidi di massa, le stragi, le case distrutte e i campi profughi al collasso fossero una componente essenziale del nostro panorama quotidiano, come se fossimo stati costretti a smetterla di osservare il mondo dall’alto in basso, col sopracciglio alzato e lo sguardo di chi può permettersi il lusso di giudicare dall’esterno.
Quei profughi che sbarcano laceri sulle nostre spiagge, quei migranti siriani che sono approdati sulle coste greche confondendosi tranquillamente con i turisti, essendo l’immigrazione siriana assai più ricca di quella disperata dal Corno d’Africa e dalle ex primavere arabe in fiamme, quest’umanità dolente in fuga da se stessa, alla disperata ricerca di un domani e di qualche punto di riferimento, ci riguarda e ci interroga, è ormai parte di noi, del nostro tessuto sociale e civile e sempre più lo sarà nei prossimi anni, quando i loro figli andranno a scuola insieme ai nostri, quando i bambini giunti da noi saranno adolescenti e poi uomini, quando si sposeranno con ragazze e ragazzi italiani, quando li vedremo tifare per le nostre squadre di calcio e sostenere la nostra Nazionale, mangiare i nostri stessi cibi, condividere le nostre stesse emozioni, in un percorso senza ritorno perché la scelta di fuggire dall’orrore e dalla distruzione è irreversibile: quest’umanità non se ne andrà mai e, se anche provassimo a respingerla, ritornerebbe comunque.
E allora, a mio giudizio, una sana informazione dovrebbe porsi il problema non solo di come raccontare gli sbarchi ma, più che mai, di immaginare l’avvenire di queste persone, raccontando le storie di chi ce l’ha fatta e illuminando i ghetti, i campi di pomodori assassini del nostro Meridione, il fenomeno criminale del caporalato e le vite, le ambizioni, le difficoltà e i primi piccoli successi dei nuovi cittadini europei che, in fondo, non chiedono altro che ciò che noi chiedevano all’inizio del secolo scorso quando sbarcavamo sulle coste newyorkesi o in Sudamerica.
Un racconto integrato e non venato sempre da toni allarmanti; un racconto organico e ricco di particolari e di dettagli riguardanti gli esseri umani in quanto tali; un racconto capace di presentare l’immigrazione non tanto come un problema quanto come una straordinaria risorsa per la crescita, anzitutto culturale, delle nostre comunità; un racconto onesto che non taccia sulle sacche di delinquenza e di pericolosa emarginazione sociale che pure segnano le nostre città ma che non riduca un fenomeno di dimensioni globali a una scaramuccia di quartiere, neanche quando gli episodi di cronaca portano alla luce efferatezze ovviamente da condannare e da punire: questo dovrebbe essere lo scopo del giornalismo contemporaneo, a partire proprio da quel servizio pubblico che dovrebbe porsi come orizzonte la costruzione di un nuovo linguaggio, basato sull’inclusione e sull’ascolto, sul coinvolgimento di nuove sensibilità e sull’attenzione verso mondi che potrebbero schiuderci universi finora inesplorati e, invece, interessantissimi.
Diceva Max Frisch, scrittore e architetto svizzero: “Volevamo braccia, sono arrivati uomini” e si riferiva proprio a noi italiani, emigranti con la valigia di cartone, in fuga dalla povertà delle nostre campagne. È bene ricordarsene e farlo presente ogni volta che un “piazzista da quattro soldi”, qualunque sia il suo colore politico, si permette di soffiare sul fuoco della paura e di strumentalizzare le ansie e le preoccupazioni dei ceti sociali più fragili e più colpiti dalla crisi. Ed è bene ricordare a chi invoca le ruspe, i respingimenti in mare o altre misure restrittive che non solo anche noi siamo stati stranieri ma, in particolare, che anche noi costituiamo l’orgoglioso meridione di un continente che senza la sua periferia, potrebbe pure volare sul piano economico ma finirebbe con lo smarrire la propria anima e gran parte della sua bellezza.