Gherardo Colombo: “Tempo di ‘restorative justice'”

21 Maggio 2015

Il carcere non serve. Anzi, è dannoso. Lo dice Gherardo Colombo, una vita spesa – prima – come magistrato e – poi – come “divulgatore” della legalità, in giro per l’Italia a parlare, spiegare. A dire “cose impopolari”, insomma, su cui regna l’afasia politica: il carcere priva della dignità, educa all’obbedienza e non alla libertà responsabile, risponde al male con il male, non riabilita, aumenta la recidiva, riduce la sicurezza.

Il carcere non serve. Anzi, è dannoso. Lo dice Gherardo Colombo, una vita spesa – prima – come magistrato e – poi – come “divulgatore” della legalità, in giro per l’Italia a parlare, spiegare. A dire “cose impopolari”, insomma, su cui regna l’afasia politica: il carcere priva della dignità, educa all’obbedienza e non alla libertà responsabile, risponde al male con il male, non riabilita, aumenta la recidiva, riduce la sicurezza. La nostra giustizia è vendicativa, risponde alla sofferenza della vittima con la sofferenza del detenuto mentre la ” restorative justice ” si fa carico di riparare la vittima e di far assumere al condannato la piena responsabilità del suo gesto. Un percorso alternativo o congiunto al carcere, difficile ma sensato. Esiste in altri Paesi, con risultati positivi, e il ministro della Giustizia Andrea Orlando vuole che sia approfondito durante gli Stati generali sul carcere.

Cominciamo dall’inutilità del carcere. Davvero lei pensa che non abbia alcuna funzione deterrente?

Sono convinto che le regole si osservano non per paura ma per condivisione. In Italia non ci sono più di 500 omicidi all’anno non perché le persone hanno paura del carcere ma perché pensano che non sia una buona cosa ammazzare. Peraltro, l’effetto deterrente non funziona in tanti casi. Pensiamo ai tossicodipendenti, un terzo dei detenuti: il tossicodipendente deve scegliere tra rispetto delle regole e bisogno di soddisfare la propria dipendenza. Il comportamento dettato dalla dipendenza è incoercibile, perché dipende – appunto – dalla droga. Il tossicodipendente sa benissimo che se commette una rapina va in prigione, eppure, anche se ha già conosciuto il carcere, continua a delinquere. Ma pensiamo anche ai delitti passionali più gravi: sono condotte coercibili? Funziona la deterrenza? Tra l’altro, in tutti i casi la deterrenza funzionerebbe solo se il controllo fosse effettivo. E così non è. Basti pensare che il 90% dei furti è a carico di ignoti.

Neanche per i reati economici serve la minaccia del carcere?

È sbagliata la sanzione. Noi non sappiamo se corrotti e corruttori finiti in carcere con Mani pulite e oggi tornati agli onori della cronaca siano colpevoli oppure no, ma, se lo fossero, vorrebbe dire che nei loro confronti il carcere non ha funzionato come deterrente. Detto questo, credo che andrebbero individuate sanzioni “produttive”, per impedire, ad esempio, l’utilizzo di quanto ricevuto indebitamente. Resta fermo che per marginalizzare la corruzione occorre un intervento culturale: finché la cittadinanza nel suo complesso è tutto sommato disponibile ad accettarla, sia dal lato passivo che attivo, finché nel comune sentire è tollerata come necessità, uscirne sarà impensabile, men che meno aumentando le pene.

Uno degli argomenti più spesi politicamente è la “certezza della pena”, declinata come “tolleranza zero” o “carcere chiuso buttando la chiave”. Studi economici dimostrano invece che un carcere “aperto” – pena finalizzata al reinserimento sociale del detenuto – o comunque vivibile – rispettoso della dignità e dei diritti fondamentali – riduce la recidiva e, di converso, aumenta la sicurezza collettiva. Perché un argomento così decisivo non fa breccia nell’opinione pubblica e in politiche penali conseguenti?

Anche qui c’è un aspetto culturale molto forte. Il carcere è un tema che ha a che fare con la paura e con la paura non si ragiona: la senti e cerchi la via più immediata per rispondere. Inoltre, in Italia è diffusissima la convinzione secondo cui chi ha fatto del male deve subire il male. Una reazione che deriva da aspetti emotivi e da millenni di cultura egemone, omologa a questo pensiero.

La politica non dovrebbe smarcarsi dall’emotività?

In politica, le ragioni di calcolo sono molto forti. Negli Usa non c’è stato nessun candidato alla presidenza che abbia parlato male della pena di morte e se lo ha fatto ha perso le elezioni. La politica deve fare i conti con il sentire comune, anche se dovrebbe evitare di alimentarlo troppo, calcando la mano con pene più severe.

Per migliorare la vivibilità basterebbe applicare leggi e regolamenti vigenti. Però non si fa. Perché?

È vero: leggi, regolamenti, principi ci sono già. Però, anche qui, il problema è in primo luogo di cultura: se tutti siamo convinti che chi sta in carcere deve soffrire, chi in carcere ci lavora è contagiato. Affinché il carcere non sia custodiale ma finalizzato al recupero, sarebbe necessaria una conversione delle professionalità, diverse da quelle che ci sono. Il carcere costa 3 miliardi, quasi tutti spesi per mantenere la struttura (stipendi, manutenzione) mentre alle attività ricreative, culturali e formative dei detenuti non va quasi niente. Destinare le risorse in modo diverso è un problema perché, se tutto resta così com’è, i cittadini sono contenti. Anzi, vorrebbero addirittura che fosse peggio.

Se la severità della sanzione detentiva riflette il disvalore sociale di condotte illegali, lei per quali reati conserverebbe il carcere?

Il disvalore sociale dipende dal precetto, più che dalla sanzione, e dalla condivisione del precetto. Sulla corruzione si stanno aumentando le pene, in parte già aumentate nel 2012 con la legge Severino. È forse cambiato qualcosa dopo quella legge? È aumentata la percezione del disvalore della corruzione? Semmai, il problema è la comunicazione del precetto, che va spiegato. Io credo che, non in carcere ma da un’altra parte, debbano starci solo i più pericolosi, i detenuti più capaci di danneggiare gli altri, purché il pericolo sia attuale. La loro pericolosità, però, dovrebbe comportare la compressione dei soli diritti che contrastano con la tutela della sicurezza altrui. Se Tizio vuole ammazzare chiunque abbia i capelli rossi, sarebbe assurdo vietargli di incontrare la moglie con i capelli neri o privarlo delle condizioni minime di igiene e di spazio.

Giustizia riparativa: le vittime possono accettare davvero che chi li ha “offesi”, invece di pagare con il carcere, sia sottoposto a un percorso riabilitativo all’esterno?

Non è così assurdo né raro. Recentemente, l’hanno fatto due madri, una di un carabiniere ucciso e l’altra del ragazzo che lo ha ucciso. Nell’università del Minnesota, il professor Mark Umbreit ha fatto una meta-ricerca sul grado di soddisfazione dei responsabili di un delitto e delle vittime a compiere il percorso riparativo nonché sul grado di soddisfazione di entrambi. La percentuale di gradimento è molto elevata, tra l’80 e il 90%. Il sistema di giustizia riparativa è applicato in vari Paesi, alternativamente o congiuntamente al carcere. Purtroppo noi siamo fermi a una cultura secondo cui l’unica soddisfazione della vittima è quella del suo desiderio di vendetta. Che non è proprio un sentimento positivo. La giustizia riparativa, invece, si preoccupa molto di più della vittima.

È credibile un governo che lancia gli Stati generali sull’esecuzione penale ma ha paura di attuare la delega sulle pene alternative al carcere perché “impopolare”?

Anche qui è una questione di cambiamenti culturali. Il percorso che ho indicato per incidere positivamente sulla giustizia penale non è né facile né breve ma se si accetta l’impostazione è necessario muoversi con coerenza. Quindi spero proprio che l’occasione sfumata non esercitando la delega possa essere realizzata con gli Stati generali.

Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2015

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