Il tratto distintivo di questo 25 aprile? «Mi sembra che sia diventata una festa di tutti. E che le polemiche sul sangue dei vinti abbiano lasciato il posto a una visione più pacificata». Solo dieci anni fa la destra berlusconiana proponeva di abolirlo. Fu il momento più basso nella campagna antiresistenziale di un’Italia postfascista che cercava radici identitarie diverse dal patto costituzionale. Ma gli anniversari della Liberazione non hanno mai brillato per armonia, terreno di contesa tra le diverse famiglie politiche e culturali. Una sorta di termometro dello spirito del tempo, che ripercorriamo con lo storico Giovanni De Luna.
«IL 25 aprile non è mai stata una data monumentale. Non ha mai conosciuto quella dimensione celebrativa che caratterizza il 14 luglio in Francia o il 4 luglio negli Stati Uniti. Il Giorno della Liberazione è una memoria inquieta, al centro di interrogativi che ne impediscono l’imbalsamazione».
Questanno però i festeggiamenti appaiono meno irrequieti.
«Da una parte c’è un maggiore coinvolgimento delle istituzioni, che recuperano il 25 aprile nel suo significato fondante della democrazia. E sul piano del dibattito storico- culturale sembra attenuato il livore revisionista degli anni passati. La mia impressione è che sia la politica che la storiografia tendano a recuperare una memoria resistenziale depurata delle asprezze della guerra armata. L’enfasi viene posta sulla resistenza civile ossia sui gesti di solidarietà piuttosto che sulla scelta militante dei combattenti. Con il risultato di rendere questo spazio pubblico molto più inclusivo ».
Ci sono voluti settant’anni per fare del 25 aprile una festa nazionale.
«In questa direzione ha lavorato soprattutto il Quirinale, che anche in tempi più agitati è stato un argine al crescente antiantifascismo. Prima il presidente partigiano Pertini, poi Scalfaro ma soprattutto Ciampi e Napolitano, propugnatori di una religione civile degli italiani, ossia di un patto di memoria che include i valori resistenziali. E in continuità con i predecessori si muove ora Mattarella. Ma questo attivismo dei presidenti stride con il silenzio del ceto politico».
Anche a sinistra?
«Penso al Pantheon che i vari candidati del Pd vennero invitati a indicare prima delle primarie. Papa Giovanni. Il cardinal Martini. Mandela. Non una parola sulla tradizione antifascista e sulla Resistenza. Io credo che si tratti di una ferita forte. La sinistra ha bisogno di una storia. E tra le pagine del Novecento la Resistenza rappresenta una delle migliori».
Prima lei ha accennato alla furia revisionista cominciata negli anni Novanta. Ha lasciato qualche traccia sul senso comune di quegli eventi?
«Credo di sì. Non tanto per la parificazione tra partigiani e fascisti, tentativo che mi sembra fallito. Conta di più l’interdetto culturale scagliato sulla lotta armata partigiana, che nell’opinione comune è svilita a basso esercizio di macelleria. I libri di Giampaolo Pansa sono un autentico catalogo dell’orrore, spogliato di qualsiasi profondità storica. Il risultato è che oggi i partigiani sono equiparati a dei terroristi. A questo contribuirono negli anni Settanta anche le Brigate Rosse che cercarono di nobilitare le loro violenze ripugnanti richiamandosi ai padri resistenti. Anche la storiografia ne fu condizionata, preferendo distogliere lo sguardo dalle azioni in armi per dedicarsi agli internati militari, alle donne e ai protettori degli ebrei, alla cosiddetta resistenza civile».
Finalmente, si potrebbe dire.
«Sì, erano tutti argomenti fino a quel momento trascurati dalla ricerca, ma poi si è finito per rimuovere il nocciolo duro che resta la scelta della lotta armata per il bene comune. Oggi cè il pericolo che quest’aspetto venga azzerato».
A lungo è rimasta nell’ombra l’altra resistenza, quella dei militari, schiacciata da un’oleografia di sinistra che esaltava la guerra partigiana come guerra di popolo. L’eccidio dei militari a Cefalonia fu riscoperto su questo giornale da Mario Pirani. E solo negli anni Novanta vide la luce il memoriale di Alessandro Natta, prigioniero militare in Germania: nel 1954 era stato bocciato dalla casa editrice del Pci.
«Si, ma in quegli anni per il Pci la priorità era rivendicare il ruolo degli operai e del partito come elementi decisivi. In seguito non direi che i militari siano stati trascurati dalla retorica comunista. Nelle manifestazioni del 25 aprile, accanto al dirigente del Pci, c’era sempre un colonnello, un ufficiale, a celebrare l’unità della Resistenza».
A proposito di rimozioni. Sono gravi le responsabilità culturali e politiche del neorevisionismo degli anni Novanta, che mira a enfatizzare solo le ombre del partigianato. Ma non sarebbe stato meglio che a porle al centro del dibattito fosse stata la stessa sinistra?
«Potrei fare un’autocritica da storico. Ma prima voglio ricordare cosa sono stati gli anni Cinquanta. L’orgoglio resistenziale di democristiani e comunisti cementato dal patto costituzionale durò soltanto due anni, dal 1945 al 1947: una fase unitaria che s’interrompe nel 1948, con l’esplodere dell’anticomunismo su cui si costruì l’Italia democristiana nella cornice della Guerra fredda. Da quel momento in poi, per tutto il decennio successivo, non si è fatto altro che parlare del triangolo rosso, di foibe, di una Resistenza insanguinata ed efferata. Sono gli anni dei processi ai partigiani, che finiscono in galera più dei fascisti. Nel primo decennale della Liberazione, il ministro della Pubblica istruzione ordina che il 25 aprile sia festeggiato nelle scuole per la nascita di Marconi, non per la Resistenza. Questo era lo spirito pubblico. Ed è impressionante come quegli argomenti siano stati riproposti in modo speculare negli anni Novanta, peraltro travestiti da clamorose scoperte storiografiche».
Negli anni Sessanta la polemica antiresistenziale si esaurisce.
«Soprattutto con le battaglie contro Tambroni e l’accordo con i neofascisti nasce un paradigma celebrativo che sarebbe durato fino alla metà degli Ottanta, quando Craxi comincia a dialogare con il Msi. In quella fase più monumentale il Pci non aveva interesse a rispolverare le vecchie storie. Ma l’elemento più interessante è che nel secondo decennale della Liberazione, nel 1965, Saragat fu il primo presidente a riconoscere il 25 aprile come data fondante della Repubblica. C’erano voluti vent’anni!».
Lei prima ha accennato a un’autocritica da storico.
«Se cè una colpa da parte nostra, non è quella di aver ignorato le violenze, ma di aver utilizzato categorie storiograficamente vecchie. Le consideravamo punte di estremismo residuali, poco significative, che furono represse dallo stesso movimento resistenziale. Bisognava fare qualcosa di più. Bisognava capire che eravamo davanti a una sorta di interregno, una terra di nessuno in cui ciascuno si riappropria del diritto di uccidere. Noi in quella terra di nessuno non ci siamo entrati».
Perché oggi abbiamo bisogno del 25 aprile?
«Avere espunto la Resistenza dal nostro spazio pubblico ha comportato una sorta di carestia morale. I valori di riferimento rischiano di essere solo gli interessi, ciò che conviene. Fu invece quello il grande momento della scelta. Dopo l8 settembre, ciascuno fa i conti con le proprie risorse, tra coraggio e opportunismo. Prima furono settemila, poi settantamila, alla fine centocinquantamila. Pochissimi in confronto ai milioni che avevano affollato le piazze del fascismo. Ma mai nella storia di Italia così tante persone avevano scelto di mettere in gioco la propria vita per la collettività. E in un tempo come il nostro privo di una pedagogia politica, questo mi sembra il lascito più prezioso».
La Repubblica, 23 aprile 2015