Il malgoverno, l’illegalità, il saccheggio delle risorse pubbliche sono divenuti in Italia una condizione permanente realizzatasi a partire dagli anni ’70 con un “golpe invisibile” che ha segnato la storia della prima repubblica, condizionato lo svolgersi della seconda e che lascia appese a un filo di speranza le sorti della terza. Gli artefici di questo degrado materiale, morale e civile del Paese, che hanno reso la democrazia un “simulacro”, sono, a giudizio di Giorgio Galli, la borghesia finanzario-speculativa e i ceti burocratico-parassitari che già quarantacinque anni fa si erano impadroniti della Dc.
Il politologo ottantasettenne autore di una produzione saggistica tra le più vaste ed originali osserva come a metà degli anni ’70 si fossero create le condizioni per una svolta che sbarrasse la strada alla finanza d’assalto dei Sindona e dei Calvi e all’avanzata della borghesia di Stato allora rappresentata da Eugenio Cefis. Alle politiche del 20 giugno 1976 il Pci aveva raggiunto il massimo storico del 34,4 per cento. La Dc, al 38,7%, non disponeva più di una maggioranza. Il responso delle urne rendeva attuale una svolta riformista.
I ceti produttivi e la borghesia industriale erano pervasi da una corrente di cambiamento che aveva contagiato la parte di elettorato cattolico che due anni prima si era espressa per il divorzio. Si sarebbe potuto costituire, dice Galli, un governo di programma presieduto da Ugo La Malfa, sostenuto da una robusta rappresentanza comunista, insieme a socialisti, repubblicani e socialdemocratici e con qualche ministro Dc ancora presentabile. Purtroppo mancarono gli interpreti di quella stagione. Il Pci «consentì il formarsi di un governo monocolore democristiano presieduto da Andreotti, per la cui maggioranza fu inventata la formula della “non sfiducia”»; e lo consentì «gratuitamente», annota lo studioso, «condizionato da una campagna mediatica che indicava nel “terrorismo” (comprendente ogni forma di contestazione) il maggior problema da fronteggiare».
Fu così che il partito guidato da Enrico Berlinguer cominciò a perdere consensi, replicando le politiche di austerità dei governi democristiani proprio mentre l’alta inflazione erodeva i salari dei lavoratori che lo avevano votato in massa. La finestra di opportunità per un ricambio, che s’era aperta nell’estate 1976, si chiuse diciotto mesi più tardi, quando lo scudocrociato «ritenne giunto il momento di ricollocare all’opposizione un Pci che perdeva voti in parziali elezioni amministrative…, mentre ne riguadagnava la…Dc». Negli anni ’70 e ’80, i fenomeni di arricchimento si ingigantirono. La corruzione divenne epidemica. Ai Michele Sindona e ai Nino Rovelli, che avevano il loro garante in Giulio Andreotti, subentrò la P2 di Licio Gelli, «stanza di compensazione dell’economia della corruzione di matrice politico-affaristica». Emersero imprenditori dalle «rapide fortune personali» come Silvio Berlusconi, «espressione della continuità del sistema». L’intreccio mafia-politica assunse carattere strutturale. La spesa pubblica lievitò. I ceti produttivi e parassitari che avevano conquistato la Dc catturarono il Psi di Bettino Craxi per poi trovare rappresentanza, nel 1994, nel partito-azienda di Berlusconi. Il berlusconismo diede vita, secondo Galli, a «un regime politico-affaristico-mediatico» che «un’opposizione di centro-sinistra evanescente e condiscendente» evitò di riconoscere e di definire tale.
La sinistra geneticamente modificata, divenuta ormai maggiornza in Parlamento, sventolò trionfante la bandiera delle privatizzazioni. Ma la vendita delle imprese di Stato, attuata prima da Romano Prodi e poi da Massimo D’Alema, ebbe l’effetto di rendere ancora più famelico il ceto speculativo-parassitario e di consegnare a una “razza” non più “padrona”, ma predona, società strategiche come Telecom. Il Pds-Ds, oggi Pd, «aveva l’occasione di stabilizzare il sistema, affrontando l’oligarchia finanziario-speculativa a partire da uno dei suoi baluardi: l’impero mediatico berlusconiano basato sull’illecito monopolio della tv privata». D’Alema, invece, accantonò il conflitto d’interesse e con una ottusità «tanto spregiudicata quanto miope, aprì la strada a quella involuzione del partito ex comunista della quale l’avventurista Matteo Renzi sarà l’approdo terminale».
Galli si rifà in conclusione alle teorie del politologo Usa Robert Dahl, secondo il quale la democrazia dei nostri successori sarà diversa da quella dei nostri predecessori: «O si restringerà in una oligarchia…; oppure evolverà verso una democrazia più partecipata». E anche se vede l’Italia incamminata verso una «postdemocrazia autoritaria», l’ottimismo della ragione lo induce a non escludere la possibilità di un moto di indignazione che modifichi il corso degli eventi: un’ondata di sdegno con forti ricadute elettorali che spinga Renzi ad abbandonare il sentiero dell’«involuzione oligarchica» per rimettere al centro della sua iniziativa politica «lo Stato di diritto e l’economia produttiva». (Giorgio Galli, Il golpe invisibile , Kaos edizioni, Milano, pagg. 256, € 18,00).
il Sole 24Ore 12.Aprile 2015