Carlo Smuraglia: nel periodo 1943-45 si risvegliarono energie fino allora inerti

11 Aprile 2015

Nato nel 1923, Carlo Smuraglia era studente universitario a Pisa quando i tedeschi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, assunsero il controllo dell’Italia centro-settentrionale. Si allontanò allora verso le Marche, sua terra d’origine. E qui più tardi gli arrivò la chiamata di leva della Repubblica sociale fascista, alla quale si sottrasse fuggendo in montagna. Ma non perché si rifiutasse di combattere: fece infatti la sua parte quando in seguito, giunta nella sua regione l’VIII armata britannica, non esitò ad arruolarsi nella divisione Cremona del Corpo italiano di liberazione, con cui proseguì la guerra lungo l’Adriatico fino a Venezia.

carlo smuragliaOggi, dopo una lunga esperienza politica e parlamentare nel Pci e nei Democratici di sinistra, Smuraglia è presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi). E va spesso nelle scuole per illustrare ai ragazzi il senso della Resistenza. Al «Corriere» lo spiega così: «Il valore dell’esperienza partigiana consistette soprattutto nella decisione di prendere in mano il proprio destino, di fronte alla situazione tragica in cui l’occupazione nazista aveva posto gli italiani. Si trattava di scegliere tra la sedicente repubblica di Mussolini, succube dei tedeschi, e la prospettiva di affrontare un nemico molto potente per costruire un futuro diverso. In genere i giovani che andarono in montagna non avevano preparazione politica, perché erano sempre vissuti sotto la dittatura, ma furono mossi da un sentimento istintivo di libertà, che li spinse ad agire per riscattare la patria, per condurla fuori dal baratro in cui l’aveva gettata il fascismo. L’insegnamento più importante della Resistenza è dunque che nella vita si può e si deve scegliere, anche quando tutto sembra perduto».
Però molti altri giovani presero la strada opposta, aderirono alla Rsi, perché pensavano che la scelta più onorevole fosse continuare a combattere insieme ai tedeschi: «Anche tra i partigiani c’erano militari che volevano continuare la guerra, ma contro i nazisti che ci avevano aggrediti e avevano catturato un gran numero di soldati italiani, senza riconoscere loro la qualifica di prigionieri di guerra, per deportarli in Germania, metterli al lavoro e sfruttarli in condizioni schiavistiche. Quella per la Rsi fu una scelta sbagliata, motivata da ideali illusori o dal condizionamento degli anni passati sotto la dittatura, quando il fascismo appariva alla grande massa degli italiani come l’unico orizzonte possibile. Ma al di là delle spiegazioni, non si possono dimenticare gli atti efferati di cui spesso si macchiarono i miliziani di Salò».
Però atrocità vi furono anche da parte partigiana, come si legge nei libri pubblicati di recente da Giampaolo Pansa. «La guerra è sempre violenta, nella vicenda di ogni movimento armato di liberazione si trovano luci e ombre. Ma in questo campo ci sono state notevoli esagerazioni, alcuni episodi sono stati ingigantiti. E comunque non sono paragonabili all’uso sistematico della tortura e della rappresaglia da parte fascista, con i cadaveri delle persone uccise che venivano lasciati esposti a lungo per incutere terrore. Negli anni Cinquanta vennero intentati numerosi processi contro ex partigiani per reati comuni e io, come avvocato, mi sono spesso trovato a difendere gli imputati, che in molti casi venivano assolti perché le accuse si rivelavano infondate».
Come risponde a chi sostiene che la Resistenza coinvolse una minoranza di italiani e soltanto al Centro-Nord? «È una visione riduttiva. Al Sud, a parte le quattro giornate di Napoli, si verificarono diversi casi di opposizione alle prepotenze dei tedeschi, che reagirono con estrema ferocia. E poi la Resistenza non fu soltanto lotta armata: comprende anche gli scioperi delle fabbriche, il soccorso fornito dai contadini ai partigiani, ai fuggiaschi e ai perseguitati, il rifiuto di aderire alla Rsi da parte dei militari italiani internati in Germania. Importantissimo fu il contributo delle donne, che a volte combattevano, ma spesso portavano messaggi e rifornimenti, o curavano i feriti e aiutavano prigionieri e fuggiaschi. E non dimentichiamo quanti sacerdoti si opposero alle rappresaglie o aiutarono i partigiani, pagando a volte con la vita. È vero che la Resistenza non conquistò tutto il popolo italiano, ma considerarla opera di una ristretta minoranza mi sembra un grave errore».
Veniamo alla letteratura. «I romanzi hanno avuto un ruolo fondamentale nel fare luce sulle molteplici sfaccettature dell’esperienza resistenziale. Apprezzo quindi l’iniziativa assunta dal “Corriere della Sera” di rimettere in circolazione una scelta vasta e interessante di opere che sono diventate una sorta di classici. Penso a Beppe Fenoglio, a Italo Calvino, a Giorgio Bocca. Sono autori che ci fanno comprendere come la lotta partigiana abbia determinato un incontro di mondi diversi intorno a un obiettivo comune. Se poi consideriamo opere più recenti, secondo me spiccano tra tutti i libri di Marisa Ombra, che offrono un originale punto di vista femminile. La grande forza della Resistenza è consistita appunto nel coagulare energie della più diversa provenienza, che spesso fino ad allora, nella storia d’Italia, erano rimaste inerti».
Ben presto però, dopo la conclusione vittoriosa della guerra, l’unità delle forze antifasciste si ruppe. «È vero, ma ciò non impedì ai partiti, che si erano divisi sul governo, di proseguire nella collaborazione in sede costituente. Fu un piccolo miracolo laico: forze che ideologicamente erano molto distanti fecero uno sforzo costruttivo nella ricerca non di un semplice compromesso, ma di un denominatore comune su cui fondare la convivenza civile e il gioco democratico. Non credo che sarebbe stato possibile, se una grande capacità di comprensione reciproca non fosse maturata precedentemente, nel fuoco della lotta, durante la Resistenza».

Il Corriere della Sera, 11 aprile 2015

 

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