Nel dibattito parlamentare sulla riforma costituzionale è emersa in tutta la sua drammatica evidenza l’impotenza delle opposizioni. L’epilogo del dibattito alla Camera appare, anche dal punto di vista simbolico, espressione della confusione e della debolezza delle forze che – a volte coraggiosamente, a volte meno – provano a contrastare la rivoluzione passiva del governo in carica. Tutti in balia ormai dei giochi e dei tatticismi che permettono al più abile tra i giocolieri di vincere a mani basse ogni partita, mentre le altre parti in causa non riescono neppure a far comprendere i motivi della propria sconfitta. Sfumano — sino a sparire – le ragioni del conflitto, rimangono in superficie solo i lamenti ovvero i sempre più inverosimili propositi di rivalsa.
Pensiamo alla vicenda dell’Aventino. Le opposizioni, a conclusione di una battaglia parlamentare confusa, dominata dalla forzatura di tutti gli strumenti procedurali, poste nelle condizioni di non poter far valere le proprie ragioni nel dibattito in assemblea, decidono di non partecipare più ai lavori. Un atto estremo, che vale a denunciare (se i comportamenti politici avessero ancora un senso) l’assoluta impraticabilità della via parlamentare. Non più solo radicale dissenso, bensì — ben oltre la pratica dell’ostruzionismo parlamentare — il disconoscimento definitivo del processo di riforma costituzionale in corso di svolgimento.
E, infatti, gran parte degli articoli della nuova costituzione sono stati votati in assenza delle opposizioni, in un aula tragicamente semi-vuota. Non so se l’Aventino sia stata una scelta opportuna – francamente non credo – ma quel che dimostra l’approssimazione dei comportamenti politici, anche di radicale contrasto, è stato il repentino ripensamento. Il ritorno in aula per la votazione finale rappresenta, infatti, una clamorosa confessione di errore.
Come si può spiegare altrimenti prima la rinuncia a opporsi nel merito per delegittimare le azioni parlamentari di una maggioranza arrogante, poi la rilegittimazione della stessa maggioranza nel momento della ratifica finale? Dov’è la logica politica, oltre che costituzionale, di un simile atteggiamento? Evidentemente quel che s’è cercato è stato l’effetto del momento, la polemica spicciola, la risonanza mediatica che un’azione plateale, ma vuota, avrebbe ottenuto. Poi, prodotto l’effetto, si può ricominciare a trattare, tornare, come se niente fosse, al tavolo da gioco. Un tavolo che, se non si voleva far saltare, non si doveva mai abbandonare. Un gioco – quello della democrazia parlamentare – che dovrebbe indurre ciascun giocatore a non uscire in nessun momento dal campo neppure di fronte all’arroganza del potere dei più forti. La sinistra, le opposizioni, non vinceranno mai se staranno più attente ai titoli dei telegiornali che non alla sostanza delle cose.
Ed anche guardando alla sostanza delle cose si percepiscono le difficoltà delle opposizioni a contrapporsi al disegno di riforma costituzionale del governo in carica. Infatti, solo in un momento s’è affacciata da parte delle opposizioni l’ipotesi di un’altra riforma costituzionale possibile: il cosiddetto progetto Chiti, che auspicava l’istituzione di un Senato delle garanzie. Non che questa fosse la migliore delle riforme possibili, ben più radicale e auspicabile sarebbe stata la proposta del monocameralismo accompagnato da una sistema elettorale proporzionale, che – non a caso — nessuno ha avanzato in sede parlamentare. Nondimeno s’è trattato almeno di un tentativo di far sentire un’altra voce e non solo la voce del padrone. Dopo di allora, incardinata la discussione sul progetto governativo, nessun altra proposta alternativa è stata avanzata, s’è provato solo – nei casi migliori – ad arginare gli eccessi di un disegno mai più rimesso in discussione nella sua filosofia di fondo, agendo unicamente di rimessa.
Non credo che la miseria della cronaca possa spiegare l’afasia delle opposizioni. Sarà pur vero che il successo della riforma trova il proprio fondamento nei patti privati contratti in luoghi appartati (il “Nazareno”), che ha prosperato in forza delle minacce o delle blandizie ai singoli (l’incombente paura di una conclusione ravvicinata di una legislatura che terrorizza i più pavidi tra i nostri rappresentanti), che conta sul richiamo ai vincoli d’appartenenza (la lealtà al governo, la disciplina di partito). Tutti questi fatti, in caso, spiegano le meschinità cui si ricorre per imporre una riforma di Palazzo, ma non giustifica la mancanza di idee alternative forti da parte di chi aspira a ribaltare lo stato di cose presenti.
Mentre si è rinunciato a condurre battaglie di principio sulle questioni di fondo, la logica puramente emendativa al progetto di riforma del governo ha ottenuto alcuni risultati: qualche competenza in più ad un senato scombiccherato, un addolcimento delle modalità di voto sui provvedimenti che il governo potrà pur sempre imporre ad un parlamento recalcitrante, un illusorio rafforzamento delle modalità di elezione per le istituzioni di garanzia che potranno comunque essere conquistate dalle maggioranze parlamentari. È stata questa una condotta tesa a limitare i danni, ma anche la confessione di una debolezza strategica.
In verità, il quesito di fondo è un altro. Le opposizioni — anziché oscillare tra i più radicali rifiuti e le più dialoganti proposte emendative — si sarebbero dovute concentrare su pochi emendamenti tesi a ribaltare la prospettiva del governo. Perché non è stata chiesta con la necessaria energia la cancellazione di un Senato irrimediabilmente “dopolavoristico”, propugnando coraggiosamente un reale superamento del bicameralismo perfetto per garantire la riunificazione della rappresentanza politica reale? Perché non si è rivendicato il riequilibrio della forma di governo a favore del parlamento contro il dominio dell’esecutivo? Perché non si è voluto immaginare il rafforzamento delle istituzioni di garanzia costituzionale al fine di aumentare i controlli sui poteri governanti?
Perché tali proposte non avrebbero avuto nessuna possibilità di essere accolte, è la risposta di buon senso. Un eccesso di buon senso. In tal modo si finisce per scordare che il parlamento non serve solo a decidere, ma anche a rappresentare. È il luogo dove le diverse visioni politiche devono confrontarsi e che il dibattito in pubblico – nelle assemblee – è un modo privilegiato di formazione dell’opinione pubblica consapevole. In parlamento si dovrebbero più di frequente condurre battaglie di minoranza, senza possibilità di vittoria nell’immediato, ma con lo sguardo rivolto al prossimo futuro, quando si può sperare di riuscire a modificare gli equilibri politici del presente.
Se questo è vero sempre, nel caso delle riforme costituzionali è doveroso. Infatti, dopo le decisioni del parlamento c’è la possibilità di un referendum. Se non si sarà in grado di far emergere con forza un’altra idea di democrazia costituzionale, è assai probabile che l’appello al popolo si trasformerà in un plebiscito sul solo progetto proposto dall’unico attore rimasto sulla scena.
Ora la discussione alla Camera s’è chiusa. C’è poco da sperare che nei prossimi passaggi parlamentari possa riaprirsi qualche spazio per rimettere in discussione l’impianto complessivo di una riforma regressiva. Fuori dal Palazzo però le formazioni sociali – i partiti, i sindacati, le associazioni culturali, i ceti intellettuali, le coalizioni sociali – hanno un’ultima possibilità per cercare di proporre un’altra visione della politica e della costituzione. Oggi minoritaria, domani chissà.
ilmanifesto, 20 marzo 2015