Il rischio di una giustizia meno attenta agli interessi deboli e collettivi. Di un giudice meno vigile nel controllo sull’abuso del potere.
IL rischio di assecondare insieme la peggiore politica e la peggiore giurisdizione, quella più remissiva e corriva.
Sono questi i grandi assenti nel dibattito intorno alla nuova disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati. Slogan deformati da due mistificazioni di fondo che la destra italiana è riuscita abilmente a far diventare fattor comune nella narrativa quotidiana: lo sguardo volto al solo processo penale e la conseguente esistenza di una guerra tra politica e giustizia che come tale richiederebbe i suoi regolamenti di conti.
E così il dibattito su indipendenza e responsabilità nella funzione giurisdizionale piuttosto che cercare gli equilibri più avanzati si trasforma nella ricerca di una norma «manifesto», che vuol dire l’uso dello strumento legislativo per declamare un messaggio o, peggio, per lanciare un avvertimento. Quello di una limitazione del controllo giurisdizionale e dello svilimento della parte più nobile della funzione, che non è una inesistente meccanica applicazione della legge ma la costante ricerca nella sua interpretazione applicativa di ambiti sempre più avanzati di tutela. Andrebbe ricordato che senza tutto questo sarebbe mancata buona parte dell’affermazione di diritti oggi diventati patrimonio comune. E sarebbe mancata anche una leva fondamentale nella difesa della nostra convivenza civile.
Il potere giurisdizionale o è insensibile (e non sempre avviene) alla forza del potere e delle parti che ha davanti o semplicemente non è. La sua ontologica funzione è nella tutela dei diritti collettivi e degli interessi deboli non solo nel penale ma ancor di più nel civile e nell’amministrativo. Ovviamente questo non vuol dire in alcun modo che il cittadino, il soggetto dell’ordinamento non debbano avere tutela contro i sempre possibili errori giudiziari. Vuol dire se mai il contrario, essendo esclusivamente questa l’esigenza sottolineata dagli organismi europei, e giammai come invece si è voluto far credere con ulteriore mistificazione, che venisse posto il minaccioso accento su una personale esposizione del magistrato. Qui la scelta, lungi dall’essere imposta dall’Europa, è stata tutta politica e tutta italiana, del resto dichiaratamente volta ad ammiccare a quel messaggio di ridimensionamento della funzione giurisdizionale, con l’effetto paradossale che mentre si dice di voler dare maggiore garanzia al cittadino nei confronti della giurisdizione, lo si colpisce proprio sul versante della principale funzione di tutela che nel suo interesse quel potere è chiamato a svolgere. Perché va da sé che un giudice personalmente più esposto non può che tendere conservativamente ad un indirizzo decisionale più corrivo meno incline alla tutela degli interessi deboli.
Per fortuna il Partito democratico e il ministro Orlando hanno scongiurato l’azione diretta della parte contro il suo giudice, che avrebbe istituzionalizzato la prassi deteriore del processo al processo, in un terribile cortocircuito. E però si deve evitare che uscita dalla finestra, quella mina rientri dalla porta a mezzo di un preteso automatismo dell’azione di rivalsa. Il testo della norma lascia spazio alla possibilità di evitarlo in sede applicativa, ma a tal fine è evidente che quel filtro dalle azioni temerarie che si è voluto togliere, deve mantenere la sua sostanziale efficacia attraverso esemplari e rapide decisioni contro iniziative proditorie e valorizzando l’eccezionalità dei casi di colpa grave e inescusabili in cui soltanto la rivalsa è possibile.
Tutto questo per scongiurare che la nuova norma piuttosto che giusto mezzo di tutela diventi, come vuole il suo messaggio, strumento di minaccia, il cui conto a ben vedere non lo pagherebbero i giudici che agevolmente potrebbero accomodarsi su una giurisprudenza sempre docile e corriva, ma la società e gli utenti con una perdita secca e irreparabile di affermazione e tutela dei diritti. È questa a ben vedere la vera posta in gioco, tristemente assente dal dibattito di queste ore.
la Repubblica, 26 febbraio 2015
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