Da anni, stretti tra cattiva amministrazione e impoverimento delle risorse finanziarie, molti Comuni hanno sempre più considerato i loro beni immobili come una sorta di bancomat al quale attingere per colmare buchi di bilancio, con vendite più o meno corrette, o hanno deciso di piegarsi alla logica del disinteresse, abbandonandoli al degrado e pure allillegalità. Gli effetti sono davanti a noi, e trovano continue conferme. Ultime quelle venute dalla proposta di vendere immobili importanti di proprietà dellEur; dalla denuncia di registi e attori sulla riconversione di quarantadue sale romane già sede di cinema; dallinchiesta di Gad Lerner sulla gestione di un insieme di case popolari a Milano. Casi né nuovi né isolati, nei quali si manifestano inaccettabili orientamenti di politica comunale, e non solo: abbandono di ogni programma di edilizia popolare; riduzione di qualsiasi edificio a pura merce, indipendentemente dal suo significato artistico e dalla sua rilevanza sociale; inadeguatezza di un quadro istituzionale che non è stato aggiornato in forme tali da riflettere nel loro insieme il nuovo senso assunto dai beni pubblici e da tutti quelli che si presentano con forti legami con interessi della collettività.
Molte sono state le spinte in questa direzione. Vi è stato un massiccio ritorno di una ideologia proprietaria affermata in un suo totale distacco da interessi più generali e concretamente tradotta nel considerare la privatizzazione una idea guida da seguire sempre e comunque. Questo risulta con chiarezza anche da norme apparentemente settoriali, come quelle che hanno incentivato i Comuni ad approvvigionarsi di risorse finanziarie concedendo ai privati il diritto di edificare, spingendo così anche verso un dissennato consumo del suolo. Tutto questo ha dato origine ad una esaltazione della proprietà solitaria dellabitazione, in sé non censurabile, ma che ha finito con il legittimare la speculazione edilizia e labbandono delle politiche di edilizia popolare, in altri tempi assai importanti. Se laspirazione da soddisfare era solo quella della proprietà della casa, intorno a ciò è stata costruita una sorta di mistica, una legittimazione molecolare dello spirito di un microcapitalismo, usata alla fine per favorire la grande proprietà immobiliare. Benedetti da Dio, o dal mercato, i singoli proprietari, diveniva coerente con questa premessa il disinteresse per tutti quelli che si erano dimostrati privi della virtù di farsi proprietari. Non è un discorso astratto o tutto ideologico. Dovremmo sempre avere ben presenti le conseguenze distruttive sul governo Letta della pretesa di subordinare ogni altra iniziativa a una particolare soluzione delle imposte sugli immobili.
Tornando ai casi ricordati allinizio, merita attenzione la decisione del ministro Franceschini di bloccare la vendita di alcuni immobili dellEur, ritenendola non praticabile per motivi tecnici, per il loro valore storico e artistico, e perché lì si condensa un significativo patrimonio culturale. Con queste motivazioni non si respinge soltanto la riduzione a merce di particolari categorie di beni pubblici. Si istituisce una relazione diretta tra questi beni e il diritto alla cultura, e si riconosce lessenzialità del rapporto tra la città nel suo insieme e i beni che la compongono.
È proprio questa limpostazione che ormai da tempo accompagna la discussione sul tema generale del ruolo sociale dei beni e del contesto istituzionale nel quale devono essere collocati. Ed è proprio questa lispirazione che sta alla base del documento di registi e attori che critica gli orientamenti espressi dal Comune di Roma per riattivare le sale cinematografiche chiuse da anni. Orientamenti che appaiono in contrasto con la garanzia prevista dal piano regolatore perché la città sia dotata di adeguati spazi sociali e culturali. Così, il problema non riguarda soltanto il modo in cui vengono trattati singoli beni, ma lidea stessa di città.
Se si considerano alcune significative esperienze italiane, e molte analoghe straniere, si coglie una connessione sempre più marcata tra diritti fondamentali, beni e soggetti che devono gestirli. Così, per riattivare beni inutilizzati, si prevedono procedure volte a favorire la partecipazione e la gestione dei cittadini o, comunque, incentivi perché luso di quei beni possa essere indirizzato verso la soddisfazione di bisogni sociali e culturali. Vi sono già molti esempi, che vanno da forme di collaborazione tra cittadini e municipalità «per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani» fino alla stipulazione di convenzioni per la gestione partecipata di beni del patrimonio comunale inutilizzati e che, invece, sono idonei a soddisfare rilevanti interessi collettivi. Una politica attiva da parte dei Comuni, dunque, essenziale per contrastare il degrado e labbandono: altrimenti linerzia diventa il pretesto o lalibi per cedere alla logica della privatizzazione, ipocritamente presentata come lunica praticabile. Questo aspetto è colto bene dal documento di registi e attori che si oppone allaccettazione dellesistente e che, al posto di una riconversione che permetta di destinare a usi commerciali le sale cinematografiche di proprietà privata, indica una strategia di incentivi mirata a rilanciarne lattività, accompagnata e integrata da altre funzioni sociali e culturali.
I diversi casi specifici individuano una questione generale, e ormai ineludibile. Non si tratta soltanto di considerare lintero contesto urbano, senza frammentarlo in spezzoni e interessi settoriali, ma di guardare alla città come bene comune. Parole, queste, che immediatamente, nel nostro depresso ambiente culturale, eccitano gli istinti di chi vede ovunque proposte eversive. Ma, visto che lo stesso presidente del Consiglio ha definito «linformazione come bene comune», vale la pena di cercar di andare più a fondo dei significati assunti da questa espressione, sperando che qualcuno si ricordi che questo è da anni tema discusso ovunque nel mondo (e che ha procurato il premio Nobel ad Elinor Ostrom) e magari legga qualche libro invece di fermarsi a citazioni casuali.
Si parla ormai di bene comune a proposito del paesaggio e della conoscenza, del welfare e dellacqua, e via elencando. Per un verso, questo è un uso retorico di una formula entrata nelluso corrente. Ma, con un significato più forte, si indica sinteticamente lesistenza di trame costituite da un insieme di connessioni tra beni, soggetti, diritti. In questi casi sono indispensabili procedure di decisione che tengano di questa molteplicità e che, in situazioni come quelle ricordate, consentano partecipazione e considerazione effettiva di tutti gli interessi in gioco. Per sottolineare lirriducibilità di questa dimensione agli schemi abituali si è detto che bisogna andare oltre lo Stato e il mercato. Chi parla di rinnovamento culturale deve seriamente fare i conti con questa prospettiva, che esige quella ragionevole follia dei beni comuni di cui ha parlato anni fa Franco Cassano, dunque una razionalità adeguata ai mutamenti che hanno investito lintera categoria dei beni e che incidono profondamente sullidea stessa di cittadinanza. Un processo che, se abbandonato a un ingannevole spontaneismo, è destinato a consolidare quei pericolosi effetti di negazione dei diritti e di disgregazione sociale che già si stanno manifestando.
In realtà, la forza delle cose sta ridisegnando il rapporto tra mondo dei diritti e mondo dei beni. Partendo da questa constatazione, i beni comuni vengono definiti come quelli necessari per lesercizio dei diritti fondamentali e per il libero svolgimento della personalità. La razionalità è quella costituzionale e il riferimento ai diritti fondamentali corrisponde esattamente al ruolo ad essi assegnato dal costituzionalismo dei nostri tempi.
Una impostazione astratta? Si dia, allora, unocchiata alle proposte di legge che, proprio su questo tema, esistono già nella Commissione Giustizia del Senato. Perché non cogliere loccasione per una seria discussione che congiunga azione parlamentare e esigenze profonde della società?
La Repubblica – 24 Febbraio 2015