“Entrare in guerra è facile ma si rischia il pantano” Il generale Mini: 5 mila uomini? Ne servirebbero 50 mila

17 Febbraio 2015

«Andare in Libia a fare la guerra è fin troppo facile. Una volta che ci fossimo infilati in quel pantano, però, difficile sarebbe uscirne. Guardate che cosa accade dopo 14 anni di Afghanistan». Non è usuale sentire un generale del nostro esercito usare tanta freddezza nei confronti della guerra. Eppure Fabio Mini, che è stato il comandante della missione Nato in Kosovo, e capo di stato maggiore del Comando Nato delle forze alleate Sud Europa, non si nasconde dietro le parole.
Generale Mini, perché intervenire in Libia sarebbe una missione tanto sbagliata?

«Andare in Libia a fare la guerra è fin troppo facile. Una volta che ci fossimo infilati in quel pantano, però, difficile sarebbe uscirne. Guardate che cosa accade dopo 14 anni di Afghanistan». Non è usuale sentire un generale del nostro esercito usare tanta freddezza nei confronti della guerra. Eppure Fabio Mini, che è stato il comandante della missione Nato in Kosovo, e capo di stato maggiore del Comando Nato delle forze alleate Sud Europa, non si nasconde dietro le parole.
Generale Mini, perché intervenire in Libia sarebbe una missione tanto sbagliata?
«Perché ho sentito molta frettolosità nell’analisi del presente, e nessuna parola sul futuro. Per parafrasare un mio libro, diteci quale guerra verrebbe dopo la guerra. Spiegateci quale è la strategia complessiva. Parlare di “peace keeping” alla maniera libanese, non ha senso: non ci sono due fazioni che si affidano a noi per consolidare una tregua. Fare come nel 2011 con i raid aerei, poi, lascerebbe le cose come stanno. Se proprio si deve controllare il territorio, in Libia ci sarebbe da combattere sul serio e non so se è chiaro che avremmo 50 morti nella prima settimana. Né si pensi che bastino 5 mila uomini, ce ne vorrebbero 50 mila e forse sarebbero ancora pochi».
L’alternativa sarebbe un’operazione alla kosovara o alla curda. Noi ci mettiamo potenza aerea e consiglieri militari, loro le forze di terra.
«Possibile. Ma allora ci devono dire chi sono gli alleati e chi no. Cioè quali fazioni appoggiamo e quali contrastiamo. Perché è evidente che l’Isis è soltanto una bandiera, e sotto ci sono le stesse milizie che prima pagavamo e che ora indossano la tuta nera perché da quelle parti è diventato un marchio vincente».
I jihadisti sembrano essere diventati i terzi incomodi tra due fazioni in rotta, gli islamici di Tripoli e i laici di Tobruk. Un intervento occidentale rischia di rompere gli equilibri e coalizzare tutti gli islamisti contro di noi?
«Appoggiando lo schieramento del generale Haftar, gli egiziani e gli americani avevano già provato a chiudere la partita con una spallata. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Egiziani e francesi, da quel che vedo, tentano ora una nuova spallata ma non penso che avranno successo neppure stavolta».
E allora, che fare?
«Innanzitutto andrei a rivedere quell’accordo di amicizia tra Italia e Libia che si firmò ai tempi di Berlusconi. Se un ampio spettro di forze libiche ci chiedessero aiuto… Ma abbandoniamo idiozie come l’esportazione della democrazia. Ipocrisia. Come quella che in questi anni ci fossero uno Stato, elezioni regolari, e governi legittimi. La Libia è terra di tribù, ciascuna con i suoi pozzi di petrolio. Se devo dirla tutta, converrebbe che gli equilibri locali si chiariscano da soli. Con un intervento occidentale ora, la crisi si internazionalizza e in prospettiva diventa ancora più ingestibile».

La Stampa, 17.2.2015

 

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