La proposta di legge d’iniziativa popolare per eliminare il «pareggio di bilancio» è utile a riscoprire la portata rivoluzionaria dei diritti fondamentali
Proviamo ad usare parole di verità. Diciamo quel che ormai tutti pensano e nessuno osa confessare. Quel che sanno in primo luogo le nostre improvvisate classi dirigenti. Il fiscal compact è stato un tragico errore. La fretta e la furia con cui s’è voluto dare seguito ad un impegno contratto con un Trattato intergovernativo, che non imponeva una modifica costituzionale, ma che solo per un eccesso di zelo ha prodotto l’introduzione di un iugulatorio vincolo costituzionale alla spesa pubblica, rappresenta un monumento alla miopia politica.
La confessione di un’impotenza, che è attestata dal perseverare in una politica economica di stampo neoliberista la quale rivela oggi tutta la sua inconsistenza, incapace di affrontare le questioni reali che la più grave crisi economica del dopoguerra pone. Il fallimento è nei fatti. E l’attuale governo ne è consapevole, sebbene annaspi, senza riuscire ad indicare strade davvero alternative. Tanto ne è cosciente che subito dopo aver approvata la norma costituzionale (e la legge ordinaria di attuazione) s’è appigliato alla possibilità di derogare — per «eventi eccezionali» — alla regola, così enfaticamente introdotta, del risanamento del bilancio. E intanto ha rinviato per un biennio, prendendo tempo, non sapendo che fare. Non avendo il coraggio — forse la capacità — di innovare per davvero, riconoscere l’errore, indicare un’altra via.
E così anche in Europa. Si è giocato con le parole (l’«austerità espansiva»), si cerca ora di contrattare un margine per sopravvivere alla crisi, negoziare qualche miglioramento, auspicare un po’ di tagli in meno, proponendo alla fine un’incerta politica di «rigore sì, ma non troppo». In sostanza ci si agita senza, però, nessuna capacità di proporre una politica alternativa, senza nessuna ipotesi di effettiva fuoriuscita dalla crisi, senza nessuna visione strategica.
In questa situazione spetta a chi opera fuori dal coro — alle forze critiche e pensanti, ai soggetti responsabili e consapevoli dei guasti fin qui prodotti e dei disastri che si produrranno in un prossimo futuro se non si riuscirà a cambiare lo stato di cose presenti — indicare la rotta. È necessario essere veramente «radicali» se si vuole andare alla radice dei problemi, è necessario voler veramente il cambiamento, pretendere una rottura di continuità con il passato. Altro che conservatori, come qualcuno si diverte a sostenere. Se veramente vogliamo cambiare verso dobbiamo uscire dalla continuità delle politiche di stampo neoliberista.
Per andare dove? Per abbracciare quale diversa razionalità? L’indicazione contenuta nella proposta legislativa d’iniziativa popolare per l’eliminazione del principio del «pareggio di bilancio» e la salvaguardia dei diritti fondamentali è chiara: riscoprire la portata rivoluzionaria dei diritti fondamentali, la loro intangibilità, la loro superiorità in grado. È questa la vera innovazione, la sfida che ci attende. E non solo per riequilibrare i conti.
Questa iniziativa, infatti, non chiede unicamente di cancellare le norme di equilibrio imposte in modo improvvido nel 2012, non chiede un ritorno al recente passato, non ha nostalgie di sorta, consapevole che il lungo regresso economico (ma anche culturale, politico, sociale) e l’eclisse dei diritti sono il frutto di un tempo lungo. Chiede molto di più, un vero cambio di passo che ponga al centro i diritti fondamentali delle persone che sono diritti indisponibili, non sacrificabili; quei diritti che sempre — ma soprattutto in fasi di crisi economica — devono essere protetti. Troppo facile è assicurare i diritti quando è possibile, unicamente quando l’economia lo permette; abbandonandoli invece al proprio triste destino quando si tratta di scegliere quali debbano essere le priorità delle politiche economiche in fasi di recessione.
Dunque, una proposta decisamente innovativa, ma non per questo velleitaria. Essa si radica in quel che la storia e la cultura del costituzionalismo moderno, sin dal XVII secolo, ha chiarito e che s’è imposto sin dalle origini degli stati moderni con le rivoluzioni liberali e borghesi. È il costituzionalismo moderno, infatti, che ha imposto una scala di priorità, la quale è stata definita in base al principio della prevalenza dei diritti sui poteri (anche su quelli economici). Sono il contratto sociale, le ragioni del vivere insieme, la legittimazione necessaria per poter governare che richiedono il rispetto inderogabile dei diritti. L’economia assoggettata ai diritti fondamentali non è uno slogan, non si può rappresentare in forma di slide, ma è il vero, il principale fondamento che legittima i potere. I potenti lo hanno dimenticato, a noi spetta ricordarlo.
Assicurare i diritti fondamentali in ogni congiuntura economica sarà un problema, non può essere negato. Ma chi ha mai detto che governare è facile? Ciò non toglie che la garanzia dei diritti fondamentali sia un obbligo costituzionale. Una responsabilità non solo di oggi.
La proposta d’iniziativa popolare, infatti, si pone pienamente nella scia degli obblighi costituzionali che già ci sono e che troppo spesso vengono svalutati. È già scritto in costituzione che l’iniziativa economica privata non può arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; è già scritto che è necessario garantire ai lavoratori e alle famiglie un’esistenza libera e dignitosa; è già scritto che alla Repubblica si richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Ora, nel solco di questa tradizione e nel segno del cambiamento, si vuole affermare che il risanamento economico, persino il pareggio di bilancio, sono possibili, ma alla condizione inderogabile del rispetto dei diritti fondamentali delle persone. Un obbligo che riguarda lo Stato centrale, ma anche la pubblica amministrazione e gli enti locali che devono — dice la proposta — assicurare comunque e per tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni.
Un ultima considerazione. Bisogna essere consapevoli dell’ambizione e dei limiti di questa iniziativa. L’ambizione è quella di rilanciare una cultura costituzionale che non sia più — come purtroppo ormai da tempo rischia di ridursi — al servizio del contingente, o delle maggioranze di turno, ma che torni ad essere il suo opposto: limite al potere e garanzia dei diritti, entro una prospettiva concreta di emancipazione per una società di liberi ed eguali. Per questo è necessario che si riaffermi la vera natura della Costituzione, che deve tornare ad essere la leva del cambiamento. Un proposito esplicito è quello di ribaltare l’idea che sia la Costituzione il freno dello sviluppo e vi sia dunque un’esigenza di sradicarla (nel senso più propriamente etimologico: privarla delle sue radici), riaffermare, invece, la sua portata rivoluzionaria (di rivoluzione promessa, come scriveva Pietro Calamandrei) o, almeno, rilanciare la sua natura di programma di cambiamento. Mi verrebbe da dire che solo una politica costituzionale ci potrà salvare dal buio di prospettiva nel quale siamo caduti.
Ma è necessario essere anche consapevoli dei limiti di tale — come di ogni altra — iniziativa. Le nostre povere forze, il clima ostile, i poteri costituiti avversi, le divisioni al nostro interno non ci permettono altro che indicare una rotta. Provare a fare un passo in un territorio nemico, pieno d’insidie. Le politiche neoliberiste dominano ancora in Europa e non sarà neppure sufficiente cambiare in Italia, per cambiare l’Europa.
È però possibile almeno indicare un nuovo varco da attraversare per iniziare una lunga marcia, che potrà essere percorsa solo se saprà costruire attorno a sé consenso diffuso. Solo se un piccolo «noi» saprà unirsi a un grande «voi». Lo si deve proporre con modestia e caparbietà assieme, e con una sola convinzione: se non saremo noi a farlo, nessuno la farà per noi.
26 dicembre 2014
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