Stiamo assistendo alla presa del potere da parte di una nuova, giovane e dinamica classe dirigente libera dai legami del passato, senza vincoli d’appartenenza; anzi impegnata a cancellare ogni relazione di solidarietà ideologica e a ridurre gli spazi di discussione anche all’interno delle proprie formazioni politiche. L’unico rapporto che residua è quello personale. Tra i partiti, ma anche all’interno dello stesso partito, quel che conta è l’identificazione con il leader: non si è più «democratici», ma solo «renziani» (oppure «antirenziani»).Persino una persona mite come Enrico Letta alla fine ha perso le staffe. Ed, in effetti, abbiamo assistito – nella sostanza se non nella forma — al più aggressivo attacco politico personale dentro un partito e contro un governo in carica. Il parallelo con il più maltrattato Romano Prodi non regge. Prodi è stato lasciato solo, è stato tradito dai franchi tiratori o da importanti esponenti politici della «sua» parte, ma mai nessuno – tra i sodali di governo — lo ha accusato di essere inadeguato. Dal punto di vista personale ha fatto bene Letta a rivendicare il proprio operato e a chiamare in causa la responsabilità politica di ciascuno: non ha governato da solo e le evidenti difficoltà del suo esecutivo devono essere almeno equamente ripartite. Il maggiore partito di governo non può essere ritenuto esente da colpe.
E’ anche evidente però che non v’è una possibilità di dialogo tra due mondi non più comunicanti. Letta avrebbe avuto ragione se Renzi avesse potuto accettare l’idea che esiste ancora una responsabilità collettiva, dei partiti e dei governi intesi come istituzioni. Ma è proprio quel che il nuovo leader non vuol più ammettere. È solo un problema di persone, dunque un fatto che riguarda esclusivamente «me» e «te», Matteo e Enrico. Non c’è responsabilità di partito, né il nuovo segretario può essere condizionato dall’apparato, dai ruoli o dagli obblighi che essi comportano. Questi sono tutti limiti della «vecchia» politica, intralci che impediscono il cambiamento.La crisi di governo si sta svolgendo oltre ogni precedente. Non sembrano neppure più idonee le tradizionali classificazioni che la scienza costituzionalistica – ma poi lo stesso linguaggio politico – ha sin qui utilizzato per valutare la formazione degli esecutivi e il rispetto dei principi costituzionali. Così, si ripete in questi giorni, saremo di fronte ad una «crisi extraparlamentare», Le tipiche crisi «extraparlamentari» sono quelle che – con grande frequenza in passato – scaturivano dalla rottura del patto di coalizione: erano i diversi partiti politici – ovvero alcune componenti di essi — che facevano venir meno il sostegno al governo in carica. La crisi nasceva sì fuori dal parlamento, ma pur sempre in conseguenza di una divergenza tra le diverse forze politiche della maggioranza. Per il governo Letta, invece, tutto s’è consumato entro un organo di partito (la direzione del Pd) che ha sfiduciato il proprio premier. Senza alcuna discussione con le altre componenti del governo. Una sorta di autodafé. Una crisi con qualche assonanza con la tradizione inglese, più che con quella italiana. In Gran Bretagna, in effetti, sono i partiti di governo che decidono le sorti dei loro premier. Sebbene, anche in questo caso, una differenza appare assai rilevante. La Thatcher fu «dimissionata» dal proprio partito a seguito di un congresso perduto dalla Lady di ferro. Ma, appunto, ci fu bisogno di un congresso e la critica riguardò l’indirizzo politico del partito conservatore, non fu una sfiducia alla persona.
Così anche la richiesta di parlamentarizzare questa crisi in questo caso non ha molto senso. Questa crisi non è parlamentarizzabile, perché non ha nulla a che vedere con le logiche virtuose della rappresentanza politica.
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