Si è riaperto il dibattito sulla riforma della giustizia e si torna a parlare di separazione delle carriere tra i magistrati giudicanti e quelli del pubblico ministero.
Fino ad oggi la Costituzione (art. 104 e 106) prevede per tutti i magistrati un unico ordine, un unico concorso, possibilità di passaggio da una funzione all’altra; un unico organo di autogoverno, il Consiglio Superiore della Magistratura (art. 104); la totale autonomia e indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo e ogni altro potere, al pari del giudice. In armonia con quest’ultimo principio, l’art. 112 della Carta prevede che il pubblico ministero di fronte ad una ipotesi di reato sia obbligato all’esercizio dell’azione penale (e quindi non debba rispondere – salvo patologie – delle modalità di esercizio dell’azione penale).
La compatibilità di un regime di separazione delle carriere con la Costituzione (che in realtà non nomina mai le “carriere”) è stata affermata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 37 del 2000 secondo la quale la Carta, pur considerando la magistratura come unico ordine, non contiene alcun principio che imponga o precluda la previsione di un’unica carriera o di carriere separate dei magistrati. Sarebbe conforme a Costituzione, dunque, prevedere un concorso unico ma seguito poi, dall’inizio e fino alla pensione, da percorsi rigidamente separati nell’uno o nell’altra funzione. Con un unico CSM, a garanzia di immutate garanzie di indipendenza del pubblico ministero.
Questo sembra aver pensato Giovanni Falcone che in un’intervista a La Repubblica del 3 ottobre 1991 parlò della necessità di una specifica formazione professionale del pubblico ministero, diversa per “esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica” da quella del giudice “figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti” ed aggiunse: “Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e PM siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri”. Propose, quindi, che fossero “due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, senza però “confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del pm con questioni istituzionali totalmente distinte”. Dunque, provando ad interpretare il pensiero di Falcone, sì alla separazione delle carriere intese come percorsi professionali; no a riforme lesive dell’autonomia del pubblico ministero attraverso la creazione di un ordine distinto, con il rischio di attrarre la funzione della pubblica accusa sotto il controllo dell’esecutivo; no alla eliminazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Ma, proprio perché la Carta all’art. 104 prevede per la magistratura un unico ordine, cosa diversa sarebbe se si pensasse anche a ordini separati. In questo caso sarebbe necessaria una riforma costituzionale.
E ancora più forte sarebbe il contrasto con i principi costituzionali se, una volta distinto sul piano istituzionale il ruolo del pubblico ministero da quello del giudice, si intendesse anche attenuare la sua autonomia dagli altri poteri dello Stato e in particolare dal potere esecutivo.
Su questi aspetti, in particolare su cosa si intenda quando si parla di separazione delle carriere, il dibattito politico è rimasto, come sempre, fumoso e del tutto vago, ma sembra chiaro che chi vuole separare “le carriere” vuole in realtà separare in radice la figura istituzionale del giudice da quella del pubblico ministero, spezzare ogni “idem sentire”, ogni affinità culturale, ritenendo – o comunque affermando- che ciò gioverebbe alla “terzietà” del giudice nella sua valutazione delle richieste del pubblico ministero e alla sua equidistanza sotto ogni profilo tra accusa e difesa. E ciò soprattutto, si dice, in un regime processuale come l’attuale, ispirato al sistema accusatorio in cui la prova si forma nel contraddittorio in parità di posizioni tra le parti.
Che non ci sia, in linea di principio, una soluzione sempre e comunque “giusta” è dimostrato, tra l’altro, dalla diversità degli assetti istituzionali adottati negli altri paesi a democrazia avanzata e in particolare in quelli europei, in cui unico punto comune è la assoluta indipendenza del giudice da ogni altro potere.
Gli argomenti a favore o contro l’una o l’altra soluzione sono numerosi e – anche dopo avere sfrondato quelli “politicamente orientati” dell’uno o dell’altro segno – tutti in buona parte opinabili se valutati in astratto.
Ma il punto è che, qui e ora, un asettico dibattito sulle forme è fuorviante e finisce per essere grottesco. Ispirarsi al sistema svedese o austriaco, o anche a quello tedesco o francese avrebbe un senso se l’Italia non fosse il paese che è. Scrive Gustavo Zagrebelsky nella postfazione all’ultimo libro di Sandra Bonsanti, a proposito del progetto di riforma della Costituzione: “E’ sorprendente che si faccia finta di non sapere che nelle forme politiche passa la sostanza. Nulla è neutro, puramente tecnico, giustificato dalla sola efficienza”(Il gioco grande del potere, pag. 238).
L’Italia è il paese delle mafie e delle sue collusioni e infiltrazioni nella politica; della corruzione endemica; del terrorismo, delle stragi impunite e delle complicità nelle istituzioni; del sovversivismo delle classi dirigenti; della P2, cui risale il progetto di separazione delle carriere (non è un dato decisivo, ma è meglio tenerne conto); in una parola, della illegalità dominante e quasi sempre vincente da parte delle classi dirigenti in danno dei meno tutelati.
E’ certamente vero che troppo spesso la magistratura, per propri limiti culturali e forse etici, non è stata in grado di garantire adeguatamente i diritti delle persone, soprattutto delle più deboli (ma di questo pochi si danno pena). Ed è vero che il sentirsi rappresentanti dello Stato più che dei cittadini talvolta ha condotto i giudici ad accreditare, specialmente nelle decisioni in tema di custodia cautelare (il vero punto dolente, in realtà) ipotesi di accusa -nel merito e quanto alle esigenze cautelari- non solide come si dovrebbe.
Ma pretendere di risolvere tutto questo con la separazione delle carriere o addirittura degli ordini appare illusorio, a fronte degli enormi rischi che ne deriverebbero, in sede di formulazione della riforma, per la collocazione istituzionale del pubblico ministero e per la sua autonomia dal potere politico.
Nella drammatica situazione in cui siamo, non possiamo far finta di essere il paese che non siamo.
* L’autore è ex-magistrato e membro del Consiglio di Presidenza